Mario Rigoni Stern e l’altopiano: così nei boschi riportò i cervi- Corriere.it

2022-08-12 11:00:57 By : Ms. Shirly Chen

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A cento anni dalla nascita, resta valida e istruttiva l’idea della natura coltivata dal grande scrittore di Asiago. Un cacciatore rispettoso dell’ambiente

I cacciatori con l’ultimo cervo dell’altopiano di Asiago (1901; la foto ci è stata cortesemente fornita dagli eredi dei cacciatori)

«Sette volte bosco / Sette volte prato / Poi tutto tornerà com’era stato, cantano gli gnomi dentro la montagna» . Ma chissà se Mario Rigoni Stern, del quale lunedì prossimo ricorrerà il centenario della nascita, avrebbe immaginato che quel ciclo naturale, ricordato più volte nei suoi libri, potesse fare il suo corso con tanta rapidità.

Mario Rigoni Stern (1921-2021) Nel 2020, spiega un dossier di State of Europe’s Forests ripreso dall’Università di Padova, i boschi europei sono arrivati a coprire 227 milioni di ettari, «pari a oltre un terzo dell’intera superficie». Una crescita così impetuosa da rovesciare un destino che pareva segnato da anni di disboscamenti denunciati da Indro Montanelli, Antonio Cederna, Leonardo Borgese e dallo stesso scrittore asiaghese. Al punto che il patrimonio forestale italiano ha oggi toccato «livelli mai visti prima nel corso degli ultimi secoli: 11,4 milioni di ettari (tra foreste e altre aree boscate come gli arbusteti) pari a quasi il 40% della superficie», con un incremento negli ultimi ottant’anni «addirittura del 75%».

Ma lui, Mario, ne sarebbe stato entusiasta? C’è da dubitarne: se è vero che ogni ettaro di bosco cattura 74 tonnellate di anidride carbonica, è altrettanto vero che gli eccessi «amplificano fenomeni come gli incendi, le tempeste di vento e l’arrivo di insetti dannosi». La stessa tempesta Vaia, paragonabile solo al terribile «Vento Matteo» di Dino Buzzati, che esattamente tre anni fa sul solo altopiano di Asiago buttò giù in una notte mezzo milione di alberi, fu dovuta a questi eccessi. In qualche modo prefigurati dallo stesso Rigoni Stern quando cantava l’Abete rosso («Mi accompagna nella vita. Nella casa dove sono nato e ho trascorso la mia giovinezza, i mobili, le suppellettili, i pavimenti, le scale, le grandi e geometriche capriate del tetto, tutto era stato ricavato dai pecci dei nostri boschi») ma vedeva i rischi dell’eccesso di abeti rossi e solo abeti rossi piantati dopo la Strafexpedition per ricostruire le foreste dell’altopiano. Si sarebbero dovuti piantare più faggi, abeti bianchi, ciliegi selvatici e larici che per i siberiani, diceva, rappresentavano «“l’albero cosmico” lungo il quale scendono il sole e la luna sotto forma d’uccelli d’oro e d’argento». «La natura non ama la monotonia», spiegò un giorno all’amico e compaesano Daniele Zovi, il generale di brigata per anni impegnato nella difesa del territorio e poi autore di libri pieni d’amore per l’ambiente come l’ultimo, In bosco.

Forse nessuno ha saputo parlare dei boschi come lo scrittore morto («La primavera è la stagione giusta per partire, perché sai che la vita continua», aveva detto a Paolo Rumiz) nel giugno 2008. Dice tutto una pagina sull’Abete chioccia: «Viveva e cresceva in una località della mia terra alla quale lei aveva dato il nome: Klùkarhen Tanne , “Abete Chioccia”. E difatti attorno a lei crescevano centinaia di abeti bianchi d’ogni età, suoi figli. Lei era plurisecolare (da noi quest’albero è femminile), e il suo ricordo, anche per i più vecchi boscaioli, si perdeva indietro nel tempo degli avi. La sua corteccia era spessa quattro buone dita ed era tutta segnata da cicatrici cagionate dalle saette; ad abbracciare la sua base non erano sufficienti quattro uomini e a cinque metri dal piede si alzavano cinque diramazioni a candelabro che a loro volta erano altrettanti alberi molto grandi...». Ma un giorno, nel 1953, «venne un funzionario che ordinò di abbatterla perché, diceva, nell’interno il durame era sicuramente cavo. (…) Al taglio risultò sana; da lei si ricavarono ben undici metri cubi di legname e sette carri di legna da ardere. Ma i caprioli e gli urogalli abbandonarono quel posto per diverso tempo; e anche a noi ora manca qualcosa». L’equilibrio: ecco il cardine della sua idea della natura. Per i boschi, gli uomini, gli animali.

Cacciatore rispettato, se non amato, perfino da chi della caccia era nemico, non sopportava i cialtroni: «In molti casi (la caccia) è diventata un hobby, un capriccio, uno status symbol. Ci sono cacciatori che sfilano come indossatrici, piombano nei campi con i fuoristrada e travolgono, deturpano, distruggono, non hanno il minimo rispetto per l’ambiente». Cafoni che mai avrebbero scaricato in aria il fucile come aveva fatto lui gridando «alla salute degli urogalli!» in segno di resa e onore per una dozzina di galli cedroni che lo avevano fregato dopo un lungo appostamento.

Era convinto tuttavia che «va benissimo opporsi alla caccia, ma bisogna sapere che se caprioli, camosci, stambecchi e cervi sono tornati sulle Alpi lo si deve ai cacciatori: sono stati loro a ripopolare l’ambiente alpino, prelevando gli animali selvatici dagli allevamenti». Insomma, «si può tranquillamente parlare di caccia previa ricostituzione di popolamenti di selvaggina». Come sempre sapeva di cosa stava parlando. Sapeva che boschi e prati del suo stesso altopiano allora poverissimo erano via via rimasti per la caccia intensiva senza più cervi, senza più camosci, senza più altri animali selvatici. L’ultimo cervo era stato abbattuto, come conferma la foto custodita dagli eredi di quattro cacciatori tra i quali c’era don Giobatta Carli Müller (il mitico Don Titta che porta l’estrema unzione a Tönle in uno dei libri più belli di Rigoni Stern) nel settembre 1901.

E per sessant’anni lo stesso Mario, che pure era un cacciatore esperto e come tale (lo racconta Giuseppe Mendicino nella ricca biografia Un ritratto edita da Laterza) era stato addirittura aggregato durante la prigionia tedesca dopo la ritirata in Russia , con una specie di lasciapassare venatorio, a una battuta di caccia al cervo, non ne aveva mai visto uno sul suo altopiano.

Fu così che nel settembre 1994, come avrebbe narrato su «La Stampa», decise di andare con suo figlio Gianni e Daniele Zovi nella foresta di Tarvisio, «una montagna che unisce e non divide» Italia, Slovenia e Austria «per ascoltare il bramito dei cervi in amore». Erano i luoghi da cui era passato tornando dalla Russia fino ad Asiago a piedi, quando il fratello lo aveva accolto sbigottito: «Quanto magro sei, fratello...» «Aveva un cappello di feltro e un vecchio bastone di legno. Stava lì appoggiato a un albero e tendeva l’orecchio», ricorda Zovi. Una notte memorabile. Pane e formaggio. I cervi e i camosci, sull’altopiano, dopo aver rastrellato i primi esemplari un po’ qua e un po’ là, li avrebbero riportati loro, con l’aiuto di altri amici. Oltre un quarto di secolo dopo, in quei boschi, dei «suoi» cervi, ce ne sono oggi oltre un migliaio. E così dei «suoi» camosci. Quando se ne andò non ne aveva ancora abbattuto uno.

Da Einaudi. Cinque titoli con introduzioni d’autore

In occasione del centenario della nascita di Mario Rigoni Stern (Asiago, Vicenza, 1º novembre 1921 – Asiago, 16 giugno 2008) Einaudi propone in libreria cinque suoi titoli, tutti con introduzioni d’autore. Si tratta di Arboreto salvatico (con l’introduzione di Paolo Cognetti, pp. XIV - 100, euro 10); Il sergente nella neve (con l’introduzione di Eraldo Affinati, pp. XV - 129, euro 11); Le stagioni di Giacomo (con l’introduzione di Laura Pariani, pp. XVII - 158, euro 11); L’ultima partita a carte (con l’introduzione di Marco Balzano, pp. XVI - 99, euro 10); e Uomini, boschi e api (con l’introduzione di Erri De Luca, pp. X - 196, euro 10). Oltre ai testi introduttivi degli scrittori, tutti i volumi propongono inoltre la cronologia della vita e delle opere di Rigoni Stern a cura di Giuseppe Mendicino.

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