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2022-08-12 11:04:28 By : Ms. Aiwa Xue

What's the difference between a house and a home? canta Jarvis Cocker sui titoli di coda di The House, antologia horror animata in stop-motion appena approdata su Netflix, sulle note malinconiche della chitarra inconfondibile - soprattutto per chi ama The Last of Us - di Gustavo Santaolalla. Qual è, dunque, la differenza tra house e home? In italiano traduciamo entrambi con «casa», anche se i due termini veicolano due significati diversi. Quando le case smettono di essere “un insieme di mattoni” (house), come ci dice Cocker, e diventano spazi sociali, ma soprattutto affettivi, che prescindono dai luoghi e sfidano lo spazio e il tempo (home)?

Scritto dal commediografo e sceneggiatore irlandese Enda Walsh e prodotto per Netflix da Nexus, studio d’animazione specializzato nello sviluppo di talenti indipendenti, The House sembra voler rispondere a questa domanda attraverso tre storie che si svolgono nello stesso edificio. Tre segmenti autonomi, diretti e animati rispettivamente da Emma de Swaef insieme a Marc James Roels, Niki Lindroth Von Bahr e Paloma Baeza, che ci portano in periodi e, in un certo senso, anche dimensioni diverse. A prima vista potrebbero sembrare soltanto tre cortometraggi giustapposti, di quelli che spesso trovano spazio solo nei festival e sulle piattaforme d’essai ma, naturalmente, non è così. Le tre storie, che parlano costantemente tra loro, tracciano sostanzialmente un percorso all’interno di un grande tema comune, quello dello smarrimento esistenziale.

E allora, per raccontarlo, cosa c’è meglio della casa, quello spazio liminale che separa il dentro dal fuori, il luogo della familiarità che plasma la nostra identità, che qui si trasforma invece in qualcosa di estraneo, catalizzatore di insicurezza, risentimento, ansia, immobilità, incertezza per il futuro e tutte quelle emozioni che caratterizzano l’ipermodernità in cui viviamo. Un insieme di mattoni può tornare a essere una casa?

Tre storie, dicevo, tutte realizzate in animazione a passo uno e molto diverse per tono e linguaggio, che in qualche modo rievocano filoni differenti: il gotico, il body-horror e il post-horror, tracciando un percorso narrativo coerente attraverso il passato, il presente e il futuro. Ognuno dei segmenti di questo film antologico è infatti ambientato in un’epoca diversa e introdotto da un titolo che somiglia più un aforisma o un enigmatico indizio per svelare il mistero che sembra vivere sia dentro, sia ai margini di quello che vediamo sullo schermo.

Il primo capitolo, diretto da Emma de Swaef e Marc Roels, si intitola And Heard Within, A Lie is Spun («E dentro di me, si intesse una menzogna») ed è ambientato nell’Inghilterra rurale del 1800. Raymond (Matthew Good) è un uomo caduto in disgrazia che vive con la moglie Penny (Claudie Blakley), la primogenita Mabel (Mia Goth) e la neonata Isobel in una casa modesta. Troppo per non attirare le occhiatacce malevole dei ricchi membri della sua famiglia, venuti in visita a conoscere la nuova arrivata. Così, Raymond, spinto dal disagio per il suo status sociale ed economico, stringerà un patto con un misterioso architetto, Mr. Van Schoonbeek (Barney Pilling), che gli offrirà una nuova dimora gigantesca, completa di arredi e tavole sempre, e misteriosamente, imbandite. Unica clausola: lasciare la piccola e confortevole casetta (home sweet home) e non farci più ritorno.

Naturalmente, come si dice, non è tutto oro quel che luccica e l’unica che se ne rende conto, l’unica che non subisce il fascino del nuovo status sociale, è la piccola Mabel. Intorno a lei, una casa che appare quasi viva si modifica costantemente a ogni capriccio dello spettrale architetto, mentre in misteriose stanze gli operai lavorano quasi in uno stato trance che ricorda quello degli zombi e oscure presenze si annidano negli anfratti più bui.

Il segmento di de Swaef e Roels, duo belga di filmmaker conosciuto per aver lavorato mediometraggio antologico This Magnificent Cake!, è forse il più impressionante dal punto di vista estetico, soprattutto per i materiali utilizzati: dal feltro con cui sono realizzati i pupazzi, agli altri tessuti usati per scenografie e arredi. È interessante notare come questo utilizzo massiccio dei filati rappresenti quasi una traduzione visiva di aspetto narrativo chiave di questa storia, che emerge già dal verbo to spun, «filare», che compare nel titolo.

Formalmente, And Heard Within, A Lie is Spun si ricollega alla tradizione del gotico britannico e si mostra chiaramente influenzato, nelle atmosfere, dai racconti vittoriani di fantasmi come quelli di M.R. James, inseriti in un impianto narrativo che attinge direttamente alla fiaba europea (difficile non pensare alla versione originale de La bella e la Bestia). Ma c’è qualcosa di più che coinvolge livello puramente visivo: una stranezza, inteso come weird, che ricorda vagamente il surrealismo del regista ceco Jan Švankmajer (Alice, Little Otik) e, allo stesso tempo, trasmette quel senso di inquietudine che si provava sbirciando all’interno delle stanze dell’Overlook Hotel nello Shining di Kubrick. Si tratta di mere suggestioni visive, che contribuiscono a dare forma e senso all’episodio.

Then Lost is Truth, that Can't be Won («Perduta è la verità che non si può vincere») è il titolo del secondo capitolo, diretto dalla regista e animatrice svedese Niki Lindroth von Bahr e ambientato ai giorni nostri in un mondo di topi antropomorfi. Il protagonista, doppiato da Jarvis Cocker (sì, proprio il cantante dei Pulp, già nel cast di Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson), lavora come promotore immobiliare. È impegnato nella ristrutturazione di una grande casa. Per comprarla e fare un sacco di soldi si è coperto di debiti, costretto a vivere nello scantinato del suo “grande affare”. È tallonato dalle chiamate della banca e sta cercando di finire il lavoro per venderla. La casa, tuttavia, non vuole proprio collaborare: per quanto possa apparire bella e moderna una volta tirata a lucido, è marcia al suo interno, infestata da parassiti, larve e scarafaggi, nelle intercapedini. A questo problema, si aggiunge il disagio provocato da una coppia di inquietanti ospiti che, con la scusa di essere "estremamente interessati alla casa", si insinuano nella vita del promotore dopo l’aperitivo a porte aperte organizzato per la vendita. Hanno un aspetto strano e, un maniera del tutto bizzarra, saranno i catalizzatori di una trasformazione radicale dell’esistenza del topo.

L’episodio di Lindroth von Bahr è il più realistico per estetica e per resa dei piccoli dettagli, ma finisce per toccare i picchi più alti di surrealismo con una travolgente scena musicale psichedelica che coinvolge i parassiti che infestano la casa. Pensate a una sorta di versione degli elefanti rosa di Dumbo, scatenata non dall'ubriachezza ma dalla disperazione (e forse da un’intossicazione di polvere antiparassitaria, chissà). Il segmento vira spiccatamente verso la commedia nera ed è sicuramente il più kafkiano, non solo per il diretto riferimento a Gregor Samsa e alla sua metamorfosi, ma perché affronta temi quali l’alienazione e la solitudine. Perché sostengo che si tratti di un body-horror? Beh, perché si concentra sulla rappresentazione di una corporeità grottesca e sulla trasformazione come mezzo per esplorare le ansie sociali.

Il terzo e ultimo capitolo, Listen Again and Seek the Sun («Ascolta di nuovo e cerca il sole»), diretto dalla regista e attrice inglese Paloma Baeza, è quello dall’impatto visivo meno dirompente, ma è anche la storia che dà forma definitiva a tutte le parti che compongono The House. Nonostante non contenga elementi spiccatamente orrorifici, se non una fitta nebbia che avvolge la casa, unico edificio rimasto in piedi in un paesaggio postapocalittico, riflette sicuramente la tendenza alla dilatazione oltre il tempo, lo spazio e i confini del genere di quei film che ora si tende a raggruppare sotto l’etichetta di post-horror (Storia di un fantasma, The Witch, Babadook, Midsommar, Saint Maud, solo per darvi alcune coordinate). Il post-horror non è un sottogenere, ma una tendenza, un modo di approcciarsi alla materia narrativa con spirito quasi meditativo, riflettendo sull’aspetto esistenziale della paura come espressione di un disagio, più che emozione in sé. E anche in questo caso, non è tanto lo spavento reale, quanto l’allusione della paura a incombere dall’esterno dell'inquadratura, a generare l’inquietudine.

Ogni essere vivente ha infatti abbandonato la zona. Con Rosa rimangono solo l’eccentrica Jen (una Helena Bonham Carter perfetta ma ormai incastrata sempre nella stessa parte) e il giovane Elias (Will Sharpe), che ogni settimana le pagano l’affitto con un baratto di pesci o cristalli dalle dubbie proprietà. Tuttavia, Rosa è convinta che le servano soldi veri per portare avanti una ristrutturazione che, una volta completata, farà tornare tutto come prima. È bloccata in un loop che la costringe a guardare costantemente verso il passato e le impedisce di diventare altro, cambiare, andare avanti senza rinnegare quella che è stata. L’arrivo di Cosmos (Paul Kaye), lo stralunato compagno spirituale di Jen, metterà Rosa di fronte alla consapevolezza di quanto il cambiamento sia non solo inevitabile, ma auspicabile.

Contraddistinto da un’atmosfera eterea e sospesa tra sogno e veglia, tra reale e immaginario, Listen Again and Seek the Sun è visivamente raffinatissimo e ricorda, per composizione delle immagini, alcuni libri illustrati per l’infanzia. A livello di regia, tuttavia, è forse quello più attento alla forma, alla simmetria delle inquadrature, a un equilibrio compositivo che rievoca lo stile di Wes Anderson e che talvolta viene rotto da tagli obliqui e fuori bolla. È il segmento più impalpabile, un po’ come la nebbia che diventa simbolo di quello smarrimento esistenziale di cui parlavo in apertura, ma proprio per questo consente di guardare tutti gli altri episodi con occhi diversi.

Siamo, dunque, dalle parti della sfacciata allegoria e più di una volta il piano simbolico trascende quello puramente narrativo, ma una volta accettate le regole del gioco, The House si presenta come un piccolo concentrato di tecnica e creatività surrealista, supportata dalla colonna sonora evocativa, certo, ma contraddistinta da una concretezza artigianale del già citato Gustavo Santaolalla.

La forza dell’opera non sta nella scrittura, che si nutre di suggestioni letterarie e cinematografiche facilmente riconoscibili e forse rappresenta l’aspetto più debole del progetto, ma dal valore delle immagini. E non si tratta solo della tecnica utilizzata, una stop-motion raffinatissima che lascia senza parole, della precisione nel realizzare personaggi e scenografie o della cura mostrata nella scelta dei materiali utilizzati per ogni episodio: The House è un’opera in cui l’aspetto formale, regia e composizione delle inquadrature, hanno un ruolo centrale nel creare quell’atmosfera straniante, o come direbbe Mark Fisher, perturbante, che rappresenta il cuore dell’antologia nella sua interezza, nonché il collante che la tiene insieme ogni racconto, laddove manca invece una cornice.

È buffo usare la parola “collante” per le tre parti che compongono The House, come se si trattasse di materiali di costruzione da tenere insieme, come la carta da parati che Rosa, nel terzo episodio, cerca invano di attaccare al muro di una casa ormai compromessa, impossibile da riportare alla sua forma originale. C’è questa costante attenzione ai materiali in tutte e tre le storie che compongono l’antologia di Nexus Studios, e la cosa emerge sia a livello narrativo che nella messa in scena, in cui l’animazione a passo uno, concreta e materica, acquisisce un significato tematico.

Di fatto, se il primo capitolo racconta della costruzione della casa, gli altri due si concentrano su due ristrutturazioni impraticabili. Sull’impossibilità, se ci pensate, di trasformare una «house» in una «home», senza passare attraverso un reale cambiamento, sia a livello personale che sociale. C’è infatti questa attenzione al tema molto concreto del denaro come mezzo effimero per la realizzazione di sé, quasi fosse un indicatore del valore individuale. Queste tre storie all’apparenza molto semplici, fiabesche, pacate nei toni, ci mostrano come una casa familiare possa trasformarsi in un ambiente ostile e perturbante. E nel loro insieme ci dicono qualcosa di fondamentale per l’epoca in cui viviamo: per ripensare gli spazi, bisogna prima di tutto ripensare chi siamo.

The House è innanzitutto una festa per gli occhi: bellissimo da vedere, come spesso accade con le opere in animazione a passo uno. Per questo è interessante approfondire gli aspetti tecnici: si rimane sempre di stucco nel vedere come questo tipo di prodotti, nel senso per me assolutamente nobilitante di opere prodotte artigianalmente, siano realizzati. Potete vedere alcune foto del dietro le quinte nella galleria di immagini qui sopra e secondo me, da sole, riescono a restituire il senso di meraviglia che porta con sé la tecnica, a prescindere dalla storia che racconta. Ma l’aspetto formale, nel caso dell’antologia dei Nexus Studios, si intreccia con quello narrativo: la scrittura, non sempre originalissima, acquista spessore attraverso la forma. Il risultato è una riflessione apparentemente placida su di noi e sul quel mondo che dovremmo “sentire come casa”, che nasconde una forza inaspettata sotto diversi strati di senso. So di essermi forse dilungata, di aver scritto come al solito troppo, ma quando in un catalogo popolare come quello di Netflix riescono a trovare spazio piccole opere indipendenti e progetti inusuali e preziosi come The House, che hanno così la possibilità di raggiungere un pubblico diverso e più ampio, credo sia sempre un’occasione da celebrare.