Nei dintorni di Djokovic: storia di Gojo, il Borna che non ti aspettavi

2022-08-12 11:00:49 By : Mr. Jack Wang

Alle finali di Davis la Croazia sperava nel rientro di Coric. Invece il protagonista è stato un altro Borna, Gojo, che l’ha portata sino in finale. Proprio lui, quello che non avrebbe dovuto fare grandi cose e che alla Coppa Davis preferisce lo scudetto dell’Hajduk, la squadra di calcio in cui sognava di giocare da bambino

Fino ad una settimana prima dell’inizio delle finali di Coppa Davis, in Croazia ritenevano che le possibilità della loro nazionale di ben figurare fossero legate al tanto atteso rientro in campo di Borna Coric. Fermo da fine marzo per un problema alla spalla destra per il quale a maggio si era resa necessaria un’operazione, l’ex n. 12 del mondo avrebbe dovuto affiancare un Marin Cilic che negli ultimi mesi aveva dato segni di risveglio (finale a Mosca prima e 20° titolo in carriera a San Pietroburgo poi) e la coppia n.1 al mondo Mate Pavic – Nikola Mektic: una squadra che agli occhi dei tifosi croati avrebbe avuto qualche buona carta da giocare, considerando anche il fatto che il 25enne zagabrese è sempre stato un giocatore in grado di alzare il suo livello di gioco quando ha difeso i colori della nazionale. Purtroppo però, a pochi giorni dall’inizio della fase a gironi il capitano croato Vedran Martic comunicava il forfait di Coric, tornato ad allenarsi ma non ancora in condizione di essere competitivo. A quel punto forse neanche i supporters più accaniti avrebbero scommesso anche solo una kuna (la moneta croata, il cui controvalore è di circa una quindicina di centesimi di euro) sulle possibilità di un exploit croato.

Ed invece è andata a finire che Martic ed i suoi ragazzi sono arrivati ad un passo dalla conquista della terza insalatiera, fermati solo dalla imbattibile corazzata russa di Medvedev, Rublev e Karatsev (e Khachanov). Ed il merito è stato proprio di Borna. Ma non quello atteso da tutti, bensì l’altro Borna del tennis croato: quello meno famoso, Gojo. Il 23enne spalatino era arrivato a Torino da n. 279 del mondo, pressoché sconosciuto al grande pubblico come capita di frequente ad un giocatore mai entrato nella top 200, e avendo battuto solo un top 100 in carriera (e neanche uno dei più noti: il belga Bemelmans, best ranking n. 84, nelle qualificazioni a Winston-Salem nel 2017). Ed ecco che anche lui, come il suo omonimo connazionale, si è trasformato nel classico “animale da Davis” e tra Torino e Madrid di top 100 ne ha battuti ben tre – Popyrin (n. 61), Sonego (n. 27) e Lakovic (n. 33) – trascinando la Croazia in finale (anche se non va dimenticato il fondamentale contributo di Pavic e Mektic, che hanno vinto quattro doppi su quattro). Ma questa ormai è storia nota.

Riavvolgiamo allora il nastro e partiamo dall’inizio della storia. Un inizio che racconta di un ragazzino di Spalato che, come la stragrande maggioranza dei ragazzini della città dalmata, sognava di giocare a calcio nell’Hajduk, la squadra della città ed una delle più titolate della Croazia (18 titoli nazionali, tra jugoslavi e croati, in bacheca). Ma a dodici anni, per uno dei classici motivi che a quell’età portano a cambiare sport (“l’allenatore mi faceva giocare poco”) il giovanissimo Borna abbandona il sogno di diventare un beniamino del Poljud – lo stadio dell’Hajduk – e inizia a giocare a tennis. Poco dopo la storia racconta che al torneo d’esordio Borna vince il tabellone di consolazione, cosa che sorprende non poco gli addetti ai lavori spalatini considerato che molti dei suoi avversari, coetanei, aveva iniziato a colpire palline di feltro giallo da molto più tempo di lui: a Spalato in genere si inizia a giocare a tennis attorno ai 6 anni, infatti, non a 12. Ma non era l’unica cosa sorprendente del giovanissimo tennista: mancino naturale, Gojo aveva infatti deciso di giocare con la destra. Decisione molto radicale, ma, da quanto si dice, pare che il giovane Borna fosse uno che quando si metteva in testa una cosa, fosse difficile fargli cambiare idea. La storia prosegue e grazie al costante supporto – anche finanziario – della famiglia, passando per le mani di un paio dei migliori allenatori spalatini il ragazzino che voleva giocare nell’Hajduk si trasforma in un promettente tennista. Si allena seriamente (anche se non è mai stato un patito dell’allenamento) e diventa un giocatore molto solido, tanto che arrivano le sponsorizzazioni tecniche di Head e Lotto. Ma… C’è un ma. Borna viene ritenuto bravo, ma non bravissimo. Non viene cioè considerato un tennista dotato di un talento tale da poter fare grandi cose.

A questo punto, la storia ha una svolta. Borna, diciassettenne, decide infatti di fare un passo importante, chissà se anche per dimostrare che quello che pensano di lui è sbagliato. Con la mamma e la sorella maggiore si trasferisce a Zagabria, dove le condizioni per allenarsi sono migliori che a Spalato (tanti campi indoor che consentono di allenarsi con continuità anche d’inverno, molti sparring partner di ottimo livello). Scelta che si rivela azzeccata, anche grazie al nuovo sodalizio con il coach ed ex “pro” Lovro Zovko. Tanto da conquistare l’anno dopo, nel maggio 2016, il campionato croato juniores senza perdere un set. Insomma, il ragazzo inizia a dimostrare che qualcosina è capace di farla…

Passano pochi mesi e la storia cambia ancora ambientazione. Finita la stagione senza particolari squilli in singolare a livello Future (una finale, persa, mentre in doppio le finali sono ben quattro, di cui due vinte), Borna decide di attraversare l’oceano e di affrontare l’esperienza del tennis universitario alla Wake Forest University di Winston-Salem, nella Carolina del Nord. Altra scelta che si rivela azzeccata. Nel 2018, da n. 1 della squadra, Gojo trascina (20 vittorie e 3 sconfitte) la Wake Forest University al primo titolo NCAA della sua storia e arriva in finale nel campionato individuale. L’anno dopo Wake Forest sfiora il bis, sempre con Gojo grande protagonista (13 vittorie e 4 sconfitte). Non male, per uno che non era ritenuto capace di fare grandi cose… Nota a margine: pare plausibile che Vedran Martic abbia tenuto conto di questi numeri quando ha deciso di schierare Gojo come secondo singolarista a Torino – oltre che alla sua maggior propensione alle superfici rapide rispetto all’altro singolarista Nino Serdarusic – e quindi di come avesse già dato ampia dimostrazione di essere un giocatore che si esalta quando gioca per un team.

Gli ottimi risultati lo spingono a tentare subito la strada del professionismo (nel frattempo è arrivato in premio anche l’esordio in Davis, nella fase a gironi delle finali 2019), rinunciando all’anno da “senior” a livello universitario. L’obiettivo era questo sin dall’inizio dell’avventura americana, ma stavolta la scelta non paga a breve termine come accaduto con le precedenti, poiché il già di per sé tortuoso cammino iniziale tra i “pro” viene reso ancor più complicato dall’esplosione della pandemia. E a complicarlo ulteriormente ci si è messo nel 2021 anche un infortunio che ne ha compromesso il rendimento per buona parte della stagione, dopo un inizio che prometteva bene (due sconfitte per 7-6 al terzo contro avversari di rango superiore, Popyrin al primo turno dell’ATP 250 Melbourne 2 e Laaksonen all’ultimo turno delle qualificazioni dell’Australian Open).  Al quale va aggiunto anche il cambio di allenatore, con la separazione da Zovko con cui aveva ripreso a collaborare in maniera stabile al rientro in Europa. Così quella top 200 che sembrava molto vicina nell’ottobre 2020 (era n. 217) e poi di nuovo nello scorso settembre (n. 208, best ranking) deve ancora attendere. Ma a giudicare dalle parole del suo ex coach – con il quale i rapporti sono rimasti ottimi, tanto che sono rimasti in contatto anche se nel frattempo il posto del 41enne zagabrese al fianco di Gojo è stato preso da una leggenda del tennis croato come Goran Prpic, ex n. 16 ATP ed ex capitano di Coppa Davis e Fed Cup – è solo questione di tempo, soprattutto dopo l’exploit in Coppa Davis. “Sinora gli è mancata solo la continuità, quest’anno anche a causa dell’infortunio. Ma è maturato come giocatore, lo hanno visto tutti. Deve continuare ad avere un approccio professionale e ad avere anche nel circuito lo stesso grado di motivazione di quando gioca in nazionale. Lui, inoltre, è sempre stato molto critico verso se stesso. Ma se sinora aveva dei dubbi sul suo gioco, ora non deve più averne.”

La storia di Borna Gojo riparte da qui. Ma non senza tornare per un momento là dov’era cominciata. Dato che alla domanda se avesse preferito vincere la Coppa Davis o vedere l’Hajduk vincere il campionato croato di calcio, Gojo aveva risposto senza esitazione “che l’Hajduk diventi campione”. Spiegando che “ho giocato a tennis negli ultimi 11 anni, ma è tutta la vita che sogno che l’Hajduk vinca il campionato.” L’ultimo titolo della squadra spalatina risale infatti al 2005, quando Borna aveva solo 7 anni. Considerato che tra i protagonisti di quella vittoria ci furono il 19enne spalatino Tomislav Busic, top scorer in campionato, ed il 18enne Mladen Bartulovic, centrocampista mancino titolare, chissà, forse oggi magari avremmo raccontato un’altra storia e quelle di Gojo e dell’Hajduk sarebbero andate diversamente se un allenatore avesse creduto che una giovane mezzapunta mancina di Spalato fosse capace di fare grandi cose…

Nei dintorni di Djokovic: tutti i piani di Kecmanovic

Nei Dintorni di Djokovic: non ci resta che Nole

I due Masters 1000 statunitensi hanno messo in evidenza il salto di qualità del 22enne serbo Miomir Kecmanovic. Che grazie all’aiuto di coach Nalbandian ha cambiato il suo approccio al gioco. “Prima giocavo solo in un modo, ora ho più soluzioni”

Sono due le principali considerazioni che emergono analizzando quanto accaduto nel “Sunshine Double” in campo maschile. La prima è la conferma che Carlitos Alcaraz è il nuovo “crack” del tennis mondiale maschile. La seconda è che in tennis statunitense può legittimamente sperare di aver trovato in Taylor Fritz un giocatore in grado di lottare nei prossimi anni per un posto nella top 10. Ma oltre a questo, c’è anche da evidenziare come alle spalle dei citati vincitori dei due primi Masters 1000 stagionali – ora entrambi top 15 ATP – un altro giovane si è ritagliato un ruolo da protagonista sul cemento statunitense: Miomir Kecmanovic. Il 22enne serbo, infatti, in entrambi i tornei si è dovuto inchinare solo ai due futuri vincitori, perdendo da entrambi in tre set e giocando contro il 18enne fenomeno spagnolo quello che per molti è stato sinora il match più bello della stagione.

L’ex n. 1 del mondo juniores aveva iniziato l’anno reduce da un periodo complicato, in particolare la stagione scorsa nella quale non era riuscito a proseguire nel trend di crescita – sia a livello di risultati che di classifica – degli anni precedenti. Entrato tra i top 50 ad agosto 2019, Miomir aveva raggiunto il best ranking di n. 39 (migliorato di una posizione dopo i risultati di Indian Wells e Miami) poco più di un anno dopo, grazie al primo titolo ATP conquistato sulla terra rossa di Kitzbuhel nel settembre 2020. Ma da lì la faccenda si era complicata. Prima con un finale di stagione in cui non era riuscito a passare più di un turno negli altri sei tornei disputati, poi con un 2021 deludente, come certificato dallo score stagionale di 14 vittorie e 26 sconfitte dopo che i due precedenti anni da “pro” a tempo pieno lo avevano visto concludere con un saldo positivo tra vittorie e sconfitte. Delusione acuita dal fatto che a partire da maggio, dal Roland Garros in poi, per Miomir i set decisivi erano diventati tabù. Dopo la sconfitta al quinto set nel secondo turno dello Slam parigino contro il connazionale Djere, in cui si era trovato avanti due set a zero, il giovane belgradese aveva infatti perso al quinto anche negli ultimi due Major stagionali ed in nove dei dieci match al meglio dei tre in cui era andato al terzo, l’ultimo dei quali l’amarissima sconfitta 13-11 nel tie-break decisivo in Coppa Davis contro Kukushkin.

“Sì la scorsa stagione è stata dura, non è andata come speravo, ma chi lo sa, magari mi tornerà indietro in questa” aveva dichiarato ad inizio stagione il giovane belgradese, dando la sensazione di essersi lasciato alle spalle le amarezze del 2021. E professando, spiegandone i motivi, un certo ottimismo dopo il lavoro fatto in off-season con il suo nuovo coach, un grande ex come David Nalbandian, subentrato nella scorsa stagione allo storico allenatore di Miomir, il croato Miro Hrovatin. “Sono molto più preparato fisicamente e penso in maniera diversa in campo. Questo è l’aspetto su cui, più di tutti, ha influito David. Prima giocavo solo in un modo e se qualcosa non funzionava non avevo altre opzioni: un piano B, un piano C… Adesso ho diverse soluzioni a cui affidarmi”.

E che qualcosa in Miomir fosse cambiato si era iniziato a notare già a Melbourne, dove aveva sfruttato il corridoio lasciato libero dal forfait obbligato di Djokovic spingendosi sino agli ottavi di finale, prima di inchinarsi a quella vecchia volpe di Gael Monfils. Risultato assolutamente non scontato, sia per il potenziale carico emotivo da gestire pensando alle aspettative in patria per il fatto di aver “preso il posto” di Nole, sia perché i suoi precedenti risultati Slam (mai oltre il secondo turno) non inducevano certo all’ottimismo. E se sul primo aspetto “Misha” (il suo soprannome in Serbia, ndr) aveva negato di avvertire una pressione particolare nel ritrovarsi lì dove avrebbe dovuto trovarsi il suo fenomenale connazionale, sul secondo invece aveva ammesso che cominciava a non essergli indifferente. “Questa cosa mi ronzava in testa, giocavo gli Slam da tre anni e avevo sempre perso al secondo turno. Mi sono tolto un peso dal cuore, finalmente ho superato il secondo turno.”

“Vediamo se riesco a mantenere questo livello, spero di riuscirci” aveva dichiarato ai giornalisti serbi lasciando Melbourne. Viste da lontano, le due successive sconfitte con Francisco Cerundolo sulla terra sudamericana in febbraio (a cui si aggiungeva quella contro il cileno Tabilo) erano apparse ai più critici come i segnali che la performance di Melbourne non era stata che un fuoco di paglia. Invece a posteriori assumono un’altra valenza, sia in considerazione dell’exploit – anche grazie al supporto della dea bendata – del tennista argentino con la semifinale raggiunta a Miami, sia perché evidenziano come Miomir si sia messo in gioco sulla terra, superficie che nonostante la vittoria a Kitzbuhel non ha mai amato particolarmente ma che si è reso conto essergli necessaria per ampliare il bagaglio tecnico e tattico e fare un salto di qualità. Ha infatti saltato Montecarlo per recuperare dalle fatiche del Sunshine Double (10 partite disputate in totale, solo Alcaraz ne ha giocate di più, 11), ma tornerà sul mattone tritato già dalla prossima settimana, nel torneo di casa: l’ATP 250 di Belgrado.

Da quanto visto sul cemento USA, spiccano alcuni aspetti del “nuovo” Kecmanovic. Sicuramente la condizione fisica: battagliare alla pari per due ore e mezza con Alcaraz sotto il sole (e l’umidità) della Florida non è da tutti. Ma non è solo una questione di fisico: come aveva spiegato a inizio anno, Miomir adesso gioca in modo diverso. Se prima con i colpi ricercava prevalentemente la profondità, attraverso la quale indurre all’errore dell’avversario, ora il tennista di Belgrado cerca di sfruttare il campo anche in ampiezza, giocando con maggiore angolazione. Ed è diventato più aggressivo, soprattutto con il dritto, cercando di essere lui a conquistare il punto senza attendere – come faceva spesso in passato – l’errore dell’avversario. Grazie anche al supporto di una prima di servizio che sta diventando un’arma importante (81 ace nei primi quattro mesi del 2021, quando il suo record in un anno sono i 166 fatti nel 2019).

Forse però il salto di livello più importante è stato a livello mentale. Kecmanovic ha sempre avuto la tendenza a lamentarsi un po’ troppo tra un punto e l’altro quando le cose in campo non giravano per il verso giusto e a scivolare nella spirale di un body language negativo. Non che questo comportamento sia sparito del tutto, ma la sensazione è che ora riesca a circoscrivere mentalmente la cosa e a resettare, senza portarsi dietro strascichi emotivi nei punti successivi e soprattutto cercando di mantenere un linguaggio del corpo positivo. Lo ha ammesso anche lui: “In campo dimostro più voglia ed energia, “mordo” di più – sono riuscito a svoltare nel modo giusto a livello mentale”. A proposito di svoltare: tornando al discorso dei set decisivi, quest’anno il suo score nei match finiti al terzo è di 5 vittorie e 4 sconfitte. Già, sembra proprio ci sia un nuovo Miomir Kecmanovic in circolazione. Ed ha più di un piano…

Djokovic si ferma ad un passo del Grande Slam. Ma a parte lui, nessun tennista proveniente dai paesi dell’ex Jugoslavia è arrivato al terzo turno a New York. E il futuro non promette molto, in particolare in campo maschile

Tutte le luci erano, giustamente, puntate su di lui: Novak Djokovic. Dopo la conquista dei primi tre Slam stagionali, il suo tentativo di realizzare il Grande Slam, 52 anni dopo Rod Laver, e al contempo superare gli eterni rivali Federer e Nadal per numero di Major vinti, ha chiaramente monopolizzato l’attenzione degli addetti ai lavori. Nole si è fermato proprio ad un passo dal traguardo, sconfitto in finale da un grandissimo Daniil Medvedev e dalle tante, troppe, fatiche fisiche, mentali ed emotive di queste due settimane. Forse potremmo dire di questi due ultimi mesi, poiché già dopo la vittoria di Wimbledontutto il mondo del tennis (e non solo) ha cominciato a parlare sempre più insistentemente del suo possibile Grande Slam.

La sconfitta non gli ha permesso di realizzare un’impresa leggendaria a livello sportivo, ma questo non toglie nulla alla grandezza del fuoriclasse belgradese. Anzi, per come è avvenuta ha addirittura aggiunto qualcosa, con quelle lacrime che non è riuscito a trattenere al cambio campo e durante la premiazione (e poi anche nella conferenza stampa con i giornalisti serbi, quando ha parlato della sua famiglia), che hanno fatto capire fino in fondo a tutti quale enorme turbinio di emozioni abbia dovuto gestire internamente nell’ultimo periodo, mentre sul campo doveva affrontare i migliori giocatori al mondo. Soprattutto, ci permettiamo di dire, a coloro che sinora per svariati motivi – più o meno plausibili – ne avevano spesso sminuito le gesta sportive o enfatizzato i difetti e le reazioni talvolta non ineccepibili. Ma un atleta non raggiunge certi risultati se oltre alla tecnica, al fisico ed alla testa non ci mette il cuore e, come Nole suole spesso dire, l’anima. Ecco, forse domenica sera in tanti sono finalmente riusciti a vedere l’anima di Novak Djokovic.

Le eccezionali gesta del fenomeno serbo hanno fatto passare un po’ sotto silenzio, da quelle parti, il fatto che il resto della truppa proveniente dai paesi dell’ex Jugoslavia ha salutato molto presto New York. Ad esclusione del n. 1 del mondo, infatti, nessun tennista di quelle zone è riuscito a raggiungere il terzo turno a Flushing Meadows. Un dato preoccupante, soprattutto se confrontato con il recente passato. Quest’anno, per capirci, Dusan Lajovic e Donna Vekic erano arrivati agli ottavi a Melbourne e Filip Krajinovic (portando Medvedev al quinto set) e Kaja Juvan al terzo turno; Tamara Zidansek in semifinale e Polona Hercog e Laslo Djere al terzo turno a Parigi; a Wimbledon nessuno a parte Nole era approdato alla seconda settimana, ma in tre (Marin Cilic, Aljaz Bedene e Kaja Juvan) al terzo turno.

Se andiamo a vedere com’era andata lo scorso anno a New York, il dato è ancora più sconfortante. In campo maschile, oltre a Nole squalificato negli ottavi, Borna Coric era arrivato sino ai quarti, Marin Cilic e Filip Krajinovic al terzo turno; mentre nel femminile Petra Martic agli ottavi e Donna Vekic al terzo turno. Vediamo nel dettaglio, nazione per nazione, quanto male è andata, per tutti, questa edizione dello US Open.

SLOVENIA – Assente Aljaz Bedene, che ha dovuto rinunciare in quanto ancora alla prese con gli strascichi dell’infezione da Covid-19 contratta a luglio, ormai da tempo rimasto l’unico a difendere in maniera continuativa a livello Slam i colori della nazione subalpina in campo maschile, erano invece tre le tenniste slovene impegnate a Flushing Meadows. Subito eliminata Polona Hercog (contro Kvitova), hanno passato un turno Tamara Zidansek e la giovane Kaja Juvan, prima di cedere rispettivamente, in maniera netta, a Sabalenka e Collins.

CROAZIA – Ancora ai box Borna Coric dopo l’operazione alla spalla destra della scorsa primavera, sono usciti subito sia Marin Cilic che Ivo Karlovic. Il vincitore dell’edizione 2016 è stato costretto al ritiro per la prima volta in carriera a partita in corso, al suo 868esimo match, ennesimo segnale del declino del campione di Medjugorje. Karlovic il suo comunque l’aveva già fatto qualificandosi per il main draw a 42 anni. Potrebbe essere stato l’ultimo Slam per il gigante di Zagabria, che ha detto che deve valutare se proseguire o meno, considerato che la sua classifica lo costringe a giocare a livello Challenger.

In campo femminile, nonostante la sconfitta al primo turno, è arrivato qualche buon segnale da Donna Vekic, che dopo gli ottavi raggiunti a Melbourne si è dovuta operare al ginocchio destro ed è rientrata solo a fine maggio al Roland Garros. Senza l’aiuto della dea bendata, se andiamo a vedere i sorteggi a livello Slam dove ha sempre incontrato prestissimo una delle prime dieci del seeding: a Parigi e a Wimbledon aveva trovato Pliskova, rispettivamente al primo e al secondo turno, a New York ha dovuto affrontare subito Muguruza. A una top 60 (top 40 prima di Parigi) poteva andare decisamente meglio. Di positivo, dicevamo, c’è comunque la prestazione, dato che la spagnola ha avuto bisogno di due tie-break per vincere; di negativo il fatto che Donna ha perso i punti dei quarti di finale 2019 (non aveva giocato lo scorso anno) ed è scivolata ai margini della top 100 (n. 98), dove i sorteggi non possono certo migliorare.

Seconda parte della stagione da dimenticare per Petra Martic, che dopo la semifinale agli Internazionali d’Italia non è più riuscita a vincere due match di fila. Neanche a New York, dove dopo la vittoria sulla qualificata ungherese Galfi è stata fermata dalla ex connazionale, ora australiana, Ajla Tomljanovic (insieme, giovanissime, vinsero il loro primo torneo di doppio ITF a Zagabria, città natale di Ajla). Poco da rimproverare ad Ana Konjuh, che continua il suo percorso di riavvicinamento alle posizioni in classifica che occupava stabilmente prima del lungo stop a causa dei problemi al gomito destro. La tennista di Dubrovnik ha infatti superato con autorità i tre turni delle qualificazioni, prima di incocciare al primo turno in una delle grandi rivelazioni del torneo, la 18enne finalista canadese Leylah Fernandez. E da questa settimana Ana è la seconda croata in classifica (n. 82 WTA), dopo Petra Martic, avendo scavalcato Vekic: sorpasso curiosamente ratificato dalla vittoria nello scontro diretto di lunedì al primo turno del WTA di Portorose.

MONTENEGRO – Annata complicata anche per Danka Kovinic, a causa di un infortunio al polpaccio che ha compromesso la stagione sulla terra e le ha fatto saltare quella sull’erba. Rientrata a metà agosto, con due sconfitte al primo turno nei due tornei disputati a Chicago, la 26enne di Cetinje è ben lontana dalla sua forma migliore e quindi non sorprende la sconfitta contro Kristyna Pliskova, proveniente dalle qualificazioni.

SERBIA – Di Djokovic abbiamo già parlato. L’altra testa di serie serba del tabellone maschile, la n. 32 Krajinovic, è uscita subito di scena, sconfitto in quattro set da Pella. Lajovic non ha sfruttato una grossa occasione per bissare gli ottavi di Melbourne. Dopo la vittoria all’esordio con Paire, “Dule” è andato in vantaggio per due set a uno e si è procurato due palle break consecutive nel settimo gioco del quarto contro Gojowczyk, ma poi ha subito la rimonta del giocatore tedesco, che nel turno successivo ha poi superato senza grossi problemi Laaksonen. Non sorprende la sconfitta di Djere contro Kudla, ben più attrezzato di lui sul cemento. In crisi di risultati il giovane del gruppo, Miomir Kecmanovic, che non vince due match di fila dall’ATP di Belgrado di aprile. Il 22enne belgradese chiude con un 0-4 la sua campagna sul cemento americano, fermato da una delle rivelazioni di questa estate, il 26enne francese Rinderknech che lo ha superato al quinto (e che Miomir aveva battuto proprio negli ottavi a Belgrado).

Nel singolare femminile, sorteggio sfortunato per Nina Stojanovic, che si è trova subito di fronte la tds n. 2 e futura semifinalista Sabalenka, alla quale è riuscita a strappare il secondo set al tie-break prima di crollare nel terzo sotto i colpi della bielorussa. Sconfitta che le è costata l’uscita dalla top 100, dove era l’unica serba. Niente da fare anche per Ivana Jorovic, entrata grazie al ranking protetto dopo l’anno di stop tra settembre 2019 e settembre 2020 in seguito all’operazione al gomito e ancora alla ricerca della forma migliore, sconfitta nettamente al primo turno da Osorio Serrano. Sfuma anche il sogno di Olga Danilovic di giocare sull’Arthur Ashe, contro Naomi Osaka (e viste, purtroppo, le difficoltà della campionessa giapponese, chissà come sarebbe andata a finire), fermata da un virus influenzale dopo aver superato le qualificazioni e la wild card statunitense Park al primo turno.

Considerato che Djokovic dal maggio prossimo sarà un over 35 e non è cosa di poco conto, anche per un atleta integro e che ha sempre curato alla perfezione il suo fisico come lui (anche se, metabolizzata la sconfitta di New York, l’obiettivo di diventare il tennista con il maggior numero di Slam vinti in campo maschile sarà probabilmente la motivazione che lo spingerà, nonostante gli anni che passano, a cercare di continuare a migliorarsi ancora per aggiungerne altri nella sua bacheca di Belgrado), e che l’altro campione Slam di quelle zone, Marin Cilic, ne compie 33 a fine mese ma, come dicevamo, pare sul viale del tramonto già da un po’, la situazione in campo maschile, pensando al futuro, appare preoccupante. Soprattutto perché chi doveva assicurare la successione o almeno non farli rimpiangere troppo (beh, con Nole ovviamente è dura…) non sta mantenendo le promesse.

In Serbia si sperava in Miomir Kemanovic, che sebbene sia ancora giovanissimo (ha appena compiuto 22 anni) da un po’ sembra in una fase di stallo. A Zagabria invece si confidava su quel Borna Coric che tre anni fa, prima di compierne 22,  batteva due volte di fila Federer (una in finale ad Halle), era protagonista del trionfo in Davis e arrivava al n. 12 del ranking mondiale. Oggi Borna non ha ancora 25 anni, ma è tormentato dagli infortuni e il suo best ranking è rimasto quelli di tre anni fa (ora è n. 51, ma con tanti risultati 2019 in scadenza nei prossimi mesi). E non è che ci sia molto all’orizzonte: il miglior under 21 serbo è il ventenne Marko Miladinovic, n. 666 del ranking, seguito dal 18enne Medjedovic, n. 679.

Ai croati va un po’ meglio grazie a Duje Ajdukovic, vent’anni come Miladinovic, ma ben più in alto in classifica (n. 255) che ha già fatto vedere qualcosa di buono, come il secondo turno all’ATP di Umago dove ha impegnato un top 50 esperto come Ramos-Vinolas. Comunque niente di particolarmente esaltante, sia considerato che lo zagabrese è appena 24esimo nella classifica NextGen, sia ricordando che il suo concittadino Borna Coric quando aveva la sua età era lui stesso un top 50. Meglio sorvolare su Slovenia (un 17enne con un punto ATP) e Bosnia-Erzegovina (un 20enne con due punti ATP, un 20enne e un 16 enne con uno), dove bisogna sperare che Bedene e Dzumhur, anche se quest’ultimo sta già facendo fatica a mantenersi a livello di top 100, tirino la carretta ancora per un po’.

In campo femminile le prospettive appaiono, potenzialmente, migliori. Ci sono due belle giovani promesse, come la slovena Kaja Juvan e la serba Olga Danilovic (che insieme hanno vinto il doppio juniores a Wimbledon nel 2017) anche se entrambe stanno stentando un po’ a fare il salto di livello (al momento sono fuori dalla top 100). E se da una parte è vero che hanno appena vent’anni e quindi si può dare loro ancora un po’ di tempo, dall’altra il fatto che praticamente ad ogni Slam spunti fuori una teenager fenomenale (se non due, come Raducanu e Fernandez a New York), qualche perplessità su dove entrambe possano effettivamente arrivare comincia a insinuarsi tra gli addetti ai lavori.

La Serbia per il resto pare non avere moltissimo su cui contare per sperare di rinverdire i fasti del duo Ivanovic-Jankovic. Vero che Nina Stojanovic ha appena 25 anni ed Ivana Jorovic uno in meno (e due anni fa era arrivata in top 100 prima dei problemi al gomito) ma per entrambe già la top 50 sembra essere un obiettivo, seppur realistico, abbastanza sfidante. E che ci sono addirittura una decina di giocatrici dai 21 anni in giù in classifica, sebbene nessuna oltre la figlia di “Sasha” tra le prime 500 al mondo.

La Slovenia sta indubbiamente meglio, dato che invece contare per il prossimo futuro anche sulla semifinalista di Parigi, Tamara Zidansek, che ha solo 23 anni ed è n. 34 WTA, e nel complesso ha una mezza dozzina di giovani, tra le prime 650 al mondo.

Tralasciando la trentenne Petra Martic (come fatto con la coetanea Polona Hercog per la Slovenia), in campo croato ci sono un paio di nomi che potrebbero dire la loro per qualche anno. Donna Vekic, alla fin fine, ha appena compiuto 25 anni e quest’anno ha pagato lo stop a causa del ginocchio, ma a inizio anno era attorno alla trentesima posizione ed è stata n. 19. Ana Konjuh di anni ne ha solo 23, di fatto ne ha persi due a causa dell’infortunio, e come detto si sta pian piano avvicinando ai suoi livelli di gioco precedenti (e ricordiamoci che anche lei è stata una top 20, seppur per poco). Ma già che ci siamo – mal che vada ci siamo sbagliati, ma speriamo di no, innanzitutto per loro – tra le sei giovani croate in classifica segnaliamo la 15enne Petra Marcinko, che a New York è arrivata ai quarti del tabellone juniores, e la 18enne Tara Wurth, che ha appena vinto un ITF da 25.000$ a Trieste e ha fatto un balzo in classifica di oltre cento posizioni (ora è n. 377). E come sappiamo, Raducanu docet, dalla vittoria di un ITF a quella di uno Slam possono anche passare meno di due anni…

Cresciuti in Serbia, trasferitisi in Croazia a 15 anni (“Non siamo serbi o croati, ma un mix”), dall’anno scorso si allenano all’Accademia di Djokovic a Belgrado. Dove in aprile, da wild card, i gemelli Matej e Ivan Sabanov hanno vinto il loro primo titolo ATP in doppio. A 28 anni, dopo tanto impegno e tanti sacrifici. “Ma questa vittoria ci ripaga di tutto”

Sebbene la disciplina del doppio non riscuota ormai da tempo l’attenzione e l’interesse che gli appassionati e gli addetti ai lavori riservano al singolare, lo scorso aprile ha comunque destato grande sorpresa e curiosità la vittoria nel torneo ATP di Belgrado dei fratelli Matej e Ivan Sabanov. Nomi pressoché sconosciuti a tutti coloro che non hanno una particolare predilezione per i doppi a livello Challenger o il tennis balcanico, i 28enni gemelli Matej e Ivan – ad inizio torneo appaiati al n. 169 e fino ad allora con un best ranking di n. 154 della classifica ATP di doppio – erano entrati nel tabellone principale del Serbia Open grazie la wild card ottenuta per intercessione di Novak Djokovic, in considerazione del fatto che dallo scorso anno i due si allenano presso l’Accademia del n. 1 del mondo a Belgrado. Ovvero proprio su quei campi dove hanno trionfato alla loro quinta partecipazione in un torneo del circuito maggiore, battendo in finale per 6-3 7-6 la coppia uruguaiano-ecuadoregna composta da Ariel Behar e Gonzalo Escobar, top 50 nella classifica ATP e attualmente al settimo posto nella Race di doppio. E così, tra quello che sapevamo di loro prima e quello che abbiamo scoperto grazie alle loro risposte nella conferenza stampa post-finale, in primis alle domande del Direttore Scanagatta, è venuta fuori una bella storia da raccontare. Una storia di passione, impegno e sacrifici. Passione per il tennis, impegno e sacrifici per raggiungere il loro obiettivo: diventare dei tennisti professionisti. “Questa vittoria ci ripaga di tutto“ hanno ribadito più volte Matej e Ivan, quasi increduli, durante la conferenza stampa. Raccontiamo un po’ di questo “tutto”, partendo dall’inizio.

Matej e Ivan iniziano a giocare da piccoli a Subotica, la cittadina di circa 100.000 abitanti della provincia autonoma serba della Vojvodina, a pochi chilometri dall’Ungheria, dove sono nati. Merito del nonno, che nel giardino della casa di famiglia realizza un campo da tennis dove Matej e Ivan, insieme agli altri due fratelli Aleksandar e Nikola, passano le ore a sfidarsi. A quindici anni per i gemelli Sabanov arriva un grande cambiamento: devono trasferirsi (“Era un periodo economicamente difficile” ricordano) e dalla Serbia si spostano in Croazia, ad Osijek, dove la mamma, professoressa di latino e greco, insegnava alle superiori. Se dal punto di vista personale sarà stato verosimilmente difficile lasciare la città dove sono cresciuti e gli amici di infanzia, dal punto di vista tennistico il trasferimento rappresenta invece un bel passo in avanti, dato che le condizioni per allenarsi ad Osijek sono indubbiamente migliori. Basta evidenziare il fatto che mentre a Subotica non c’erano campi coperti, nel capoluogo della regione della Slavonia – dove è stato plasmato il talento di una top 40 WTA come Donna Vekic – i gemellini possono allenarsi ogni giorno, anche d’inverno.

Qualche anno dopo, terminate le superiori, Matej e Ivan si trovano a dover prendere delle decisioni importanti. Hanno già iniziato da un paio d’anni a giocare nei Futures, ma considerato che la famiglia non naviga certo nell’oro, l’unica strada per continuare a giocare e a migliorare pare quella di trasferirsi negli Stati Uniti, dove grazie ad una borsa di studio potrebbero far conciliare lo studio universitario ed il tennis. Una decisione che sembra ormai definitiva: gli accordi erano stati trovati, i documenti erano a posto, avevano già i biglietti per l’aereo. Ma… C’era un ma. Anzi più d’uno. A partire dal fatto che per la prima volta nella vita i gemelli avrebbero dovuto separarsi, dato che erano stati accettati in due college diversi, uno in California e l’altro in Mississipi. E che le loro borse di studio non erano “Full Ride”, con costi cioè totalmente a carico delle Università, ma erano parziali, e quindi la permanenza negli Stati Uniti avrebbe comportato comunque un impegno economico da parte dei loro genitori. Ma soprattutto perché il loro sogno era diventare dei tennisti professionisti. “Passavamo le notti a guardare i video, a vedere le partite dei grandi campioni come Novak, Roger e Rafa. Volevamo diventare come loro, diventare dei professionisti. E così abbiamo rinunciato il giorno prima di partire”.

Inizia così il percorso nel tennis professionistico dei gemelli Sabanov – difficilmente riconoscibili fuori dal campo, se non perché Matej è alto un centimetro in più, mentre in campo è più facile distinguerli perché Matej gioca il rovescio a due mani e invece Ivan con una sola – e come potrete immaginare, considerato che non si tratta di due predestinati (i primi punti ATP, in singolare, arriveranno a 19 anni suonati), non è certo uno dei percorsi più semplici. A confermarlo, i tantissimi aneddoti che li hanno visti protagonisti. A partire da quello per finanziare una tournée in Sudamerica. “Non avevamo i soldi per affrontare la trasferta. Chiedemmo un prestito in banca, ma non avendo un lavoro non ci fu concesso. Ci aiutò una zia, sorella di nostra madre, che lavorando lo ottenne e ci diede i soldi”. Un investimento che però nel breve periodo non si rivela fruttuoso, dato che i gemelli nel bel mezzo della tournée, dopo una sconfitta al secondo turno in un torneo a Rio De Janeiro, si ritrovano senza nemmeno i soldi necessari per tornare a casa. “In quel momento ci sembrò la fine del mondo, credevamo saremmo morti lì”. Invece tutto finisce per il meglio e i due riescono a rientrare in Europa, continuando a inseguire i loro sogni. Per riuscire ad auto-finanziarsi i due fratelli le escogitano proprio tutte: dalle più ovvie, come il dormire insieme in camera condividendo il letto (“Siamo nati insieme, per noi è naturale”), a quelle meno scontate, come il dormire in auto quando i soldi per quella camera non c’erano proprio (“Abbiamo sofferto anche il freddo, ma non ci siamo arresi”). O come il girare per tornei con la macchina incordatrice per incordare le racchette degli altri giocatori (“Chiedevamo cinque euro invece del prezzo standard di dieci euro, quindi tutti venivano da noi”) e partecipare ai campionati a squadre in giro per l’Europa che pagavano il gettone di presenza (“Andavamo a giocare dovunque, in Germania, Francia, Italia e Ungheria, viaggiavamo di notte e dormivamo in macchina pur di guadagnare qualcosa”). Riuscendo così anche a restituire i soldi alla zia, come hanno confermato su esplicita domanda del Direttore. “Sì, ci abbiamo messo un paio d’anni, ma il prestito l’abbiamo ripagato”.

I fratelloni cominciano a farsi notare in doppio a livello ITF tra il 2013 ed il 2014, arrivando tantissime volte in finale e in semifinale. Anche qui, spulciando tra i loro risultati sul sito ATP, saltano fuori diverse curiosità. Come quella che il primo torneo ITF di doppio non lo vinsero in coppia, ma Matej lo conquistò nel 2012 insieme al tennista serbo Ivan Bjelica, che dallo scorso anno è diventato loro allenatore (insieme al loro fratello maggiore Aleksandar), da quando cioè si allenano all’Accademia di Djokovic a Belgrado. E che lo stesso Matej nel 2013 perse in finale in due tornei ITF di fila in Serbia, il primo insieme a Bjelica e il secondo con Ivan (inteso come suo fratello: certo che ci mancava solo il compagno di doppio con lo stesso nome di battesimo del gemello in questa storia, ndr), sconfitto dall’inglese Matthew Shore che nel primo torneo fece coppia con Marko Djokovic e nel secondo con Djordje Djokovic, i due fratelli di Novak, quest’ultimo direttore del Serbia Open (e il primo autore della foto iniziale dell’articolo, ndr). La prima vittoria firmata Sabanov/Sabanov giunge nel luglio 2014 alla settima finale ITF insieme, sempre in Serbia, ma il primo vero salto di livello arriva circa quattro anni dopo, con l’approdo in pianta stabile nel circuito Challenger. A onor del vero i primi risultati nei Challenger erano già arrivati nel 2015, con tre semifinali in Italia (Cortina, Como, Ortisei), ma a partire dalla seconda metà del 2016 (dopo altre due semifinali) i due non erano stati in grado di confermarsi a quel livello, anche perché in quel periodo avevano deciso di focalizzarsi anche su qualcos’altro oltre al tennis.

Perché i gemelli volevano continuare ad inseguire il loro sogno, supportati in ogni modo possibile dai genitori – cosa non mancheranno di ricordare, ringraziandoli, nelle dichiarazioni subito dopo la vittoria belgradese – ma avevano comunque la testa sulle spalle e capivano che c’era da pensare anche al futuro. Tanto che tra un torneo e l’altro (in prevalenza nuovamente a livello ITF, che comportavano trasferte meno lunghe) riuscivano a completare ii ciclo di studi e a conseguire la laurea triennale alla Facoltà di Economia di Subotica, dove nel frattempo erano tornati a vivere. Ma a fine 2017, ottenuto il “pezzo di carta” e dopo che i sette tornei vinti nel corso della stagione – tra i quali quello a Lagos, in Nigeria, battendo un’altra coppia di gemelli, gli indiani Chandril e Lakshit Sood – avevano confermato che ormai il circuito Future stava loro stretto, arriva la prima finale Challenger a Bangalore, in India.

È un momento di svolta, anche economica. “Diciamo che da quel momento non abbiamo più perso soldi, dato che nei Challenger l’albergo è pagato dal torneo e quindi quello che guadagniamo possiamo investirlo per il torneo successivo”. Insomma, niente più notti passate a viaggiare e dormire in auto. Sebbene anche la vita dei doppisti Challenger riservi le sue sorprese, sia chiaro. Come quando in Brasile, a causa di un temporale, il loro match fu spostato in un tennis club vicino ad una foresta e sul campo arrivò ogni tipo di animale, comprese delle scimmie che si misero a rubare le palline!

Quello è anche il periodo in cui decidono di dedicarsi pressoché esclusivamente al doppio, considerato il fatto che la classifica di doppio consentiva loro di accedere ai tornei Challenger, mentre quella in singolare li relegava ancora a livello Future. E questo nonostante il fatto che qualche soddisfazione erano stati in grado di togliersela anche scendendo in campo da soli. Matej, ad esempio, nel 2014 vinse un Future in Serbia battendo in semifinale un 19enne Laslo Djere e ancora nel 2017, in un Future in Ungheria, si arrese solo al terzo ad Attila Balasz, ai tempi già in zona top 200 e due anni dopo finalista all’ATP di Umago. Ma allenandosi spesso con giocatori come Krajinovic e Lajovic, i gemelli di Subotica confermano quella che spesso viene indicata come la differenza principale tra un professionista tra i primi 100-200 del mondo e un giocatore relegato nelle retrovie della classifica: non le qualità tecniche in sé, ma la capacità di esprimerle in maniera continuativa giocando costantemente ad un certo livello. Cosa che invece a loro in singolare riusciva solo in saltuariamente.

Dopo la finale in India i Sabanov devono però attendere un anno e mezzo abbondante e ben ventuno tornei, in giro tra Asia ed Europa, per imporsi per la prima volta in un torneo del circuito cadetto, a San Benedetto del Tronto nel luglio 2019 (la settimana dopo, vincendo a Pontedera, arriveranno a quota 23 a livello Future). E chissà se per riuscirci un’ulteriore spinta motivazionale, magari inconscia, non sia arrivata da quello che avevano visto accadere al Roland Garros poche settimane prima, dove ad imporsi era stata la coppia tedesca Krawietz/Mies, che i gemelli di Subotica avevano clamorosamente sconfitto per 6-0 6-0 appena nove mesi prima, nei quarti del Challenger di Banja Luka. In un’intervista di qualche tempo fa, infatti, pur sottolineando con grande onestà che si trattò di un evento del tutto fortuito e fortunoso (“A noi quel giorno in campo riusciva veramente tutto, mentre loro si innervosirono subito per alcuni errori, e così è andata come è andata. Ma la settimana prima avevano vinto un Challenger molto forte a Genova e la settimana dopo ne vinsero subito un altro in Romania), Matej ed Ivan avevano ammesso che la cosa non gli era stata indifferente (“Dopo averli visti vincere a Parigi, quella notte non dormimmo, ci ritrovammo a passeggiare e a farci tante domande, a chiederci se eravamo normali…”).

Sta di fatto prima della fine dell’anno conquistano altre due finali Challenger e ancora un’altra ad inizio 2020, poco prima che la pandemia congeli il tennis e le vite di tutti. Risultati che permettono a Matej e Ivan di entrare definitivamente tra i top 200 in doppio, livello che avevano raggiunto solo per qualche settimana un paio d’anni prima, dopo la finale di Bangalore.

Ed ecco che i primi sogni cominciano a realizzarsi. Come quello di incontrare i propri idoli, i leggendari fratelli Bryan, ai quali i fratelli di Subotica devono il loro soprannome, i “Bryan croati”, coniato dai soci del Tennis Club Osijek che vedevano giocare tutti i giorni questi due promettenti gemelli adolescenti. O quantomeno incontrarne uno, Mike, il recordman assoluto di titoli Slam in doppio, diciotto, dato che ai sedici vinti con il gemello Bob tra il 2003 ed il 2014 ne ha aggiunti due in coppia con Jack Sock nel 2018, quando Bob dovette fermarsi per l’infortunio all’anca. “Da quando abbiamo iniziato a giocare il doppio assieme, i Bryan sono stati il nostro punto di riferimento, i nostri idoli. E abbiamo sempre avuto il desiderio di conoscerli. Ci siamo riusciti lo scorso anno con Mike. La moglie di Mike è slovacca ed il manager dei Bryan ci ha organizzato uno stage in Slovacchia, dove abbiamo avuto l’opportunità di allenarci con lui per una settimana. Ci ha dato moltissimi consigli e ha detto che abbiamo un buon potenziale. Che dovevamo continuare a lavorare sodo e avremmo avuto la nostra occasione. Ed è accaduto qui a Belgrado”. O quello di venir invitati ad allenarsi alla sua Accademia proprio da uno di quei campioni di cui da ragazzini cercavano di rubare i segreti guardando ore e ore di video, Novak Djokovic. “Abbiamo conosciuto Djokovic lo scorso anno al torneo di Vienna, e ci ha invitato a venire ad allenarci qui, nel suo club a Belgrado, dove le condizioni sono fantastiche e abbiamo potuto allenarci intensamente tutto l’inverno. Siamo veramente grati a Nole”.

Certo di strada da fare ce n’è ancora, se consideriamo che i due non solo non hanno uno sponsor per l’abbigliamento tecnico, come hanno spiegato al Direttore che aveva fatto una domanda al riguardo (“Abbiamo un po’ di materiale tecnico della Fila solo perché ce li manda un manager dalla Germania, ma a titolo personale”), ma addirittura neanche per le racchette (“In Croazia ed in Serbia non è facile ottenere un contratto di sponsorizzazione”), tanto che giocano uno con le vecchie racchette di Krajinovic, l’altro con quelle di Djere, di cui sono buoni amici oltre che compagni di allenamento a Belgrado. Alla scherzosa considerazione di Ubaldo che magari potevano chiedere a Djokovic anche qualche racchetta, dato che molto probabilmente ne ha a disposizione un numero maggiore rispetto ai suoi due connazionali, Matej ed Ivan hanno risposto sorridendo che non era il caso, poiché quasi sicuramente erano troppo pesanti per loro. In effetti, difficile dare loro torto: le Speed Pro di Nole, 350 grammi abbondanti incordate, risulterebbero verosimilmente poco maneggevoli per due doppisti, oltretutto non particolarmente potenti dal punto di vista fisico (1,80 per 74 kg).

Non poteva ovviamente mancare una domanda sul fatto che la loro vita e la loro carriera sono caratterizzate anche dall’aver fatto la spola tra Serbia e Croazia. La loro risposta sembra un tuffo in un passato non tanto remoto, quando popoli che poi una guerra sanguinosa avrebbe diviso si ritenevano fratelli. “Siamo nati in Serbia, abbiamo vissuto in Croazia ed ora siamo tornati in Serbia. Nostro padre è croato, nostra madre è serba. Noi siamo un mix e ci piace che sia così. Non ci piace essere identificati specificatamente come croati o come serbi. Siamo tutti uno stesso popolo, non vediamo delle differenze.” Ma Matej e Ivan fratelli lo sono e lo saranno per sempre. Uniti non solo dal profondo e speciale legame che si instaura tra due gemelli, ma anche da quegli obiettivi che vogliono raggiungere insieme su un campo da tennis. Di tempo ce n’è, come ha fatto notare loro il Direttore nella sua ultima domanda, dato che la carriera dei doppisti di alto livello al giorno d’oggi può durare fino ai quarant’anni ed anche oltre. E la sensazione è che la vittoria al Serbia Open sia solo l’inizio della favola dei Sabanov Twins.

I “Bryan croati” – che forse a questo punto sarebbe più giusto chiamare serbo-croati o, con un termine proveniente da quel passato che non esiste più, jugoslavi – hanno ancora tanti sogni da realizzare su quel campo da gioco che hanno iniziato a calpestare più di vent’anni fa, nel giardino della loro casa di Subotica. “A parte il montepremi e i punti” – rispettivamente quasi 35.000 euro, cifra pari più o meno a quella che avevano vinto complessivamente nel loro miglior biennio finora (2018-2019), e 250 punti, grazie ai quali sono arrivati tra i primi 150 doppisti al mondo e al best ranking di n. 122 – “la vittoria di Belgrado ci dimostra che abbiamo raggiunto un buon livello di gioco. Avevamo già ottenuto delle belle vittorie contro coppie di alto livello, come quella contro Krawietz e Mies, e contro altre coppie vincitrici di tornei ATP. Dovevamo essere pazienti ed aspettare il nostro momento. Ora che è arrivato, dobbiamo continuare a lavorare duro, a migliorarci. Vogliamo giocare i tornei del Grande Slam: il nostro obiettivo è quello di giocare sul campo centrale dei più grandi tornei del mondo. È quello che abbiamo sognato tutta la vita e non ci fermeremo adesso. Questa vittoria è la dimostrazione che il lavoro duro paga.”

Continuate a sognare, Matej e Ivan. Non saremo di certo noi a svegliarvi. Soprattutto ora, che non dovete più dormire più in macchina…

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