Almanacco illustrato degli animali di Scozia - Yanez Yanez

2022-08-12 11:00:45 By : Ms. BinBin Ye

Fra le lande sperdute ed arcane dei territori di Scozia si celano creature dalle storie straordinarie, animali fantastici le cui avventure si tramandano da secoli. Un fitto tessuto di leggende combina chimerico e reale, una nebbia pastosa dietro cui si muovono i racconti del nostro almanacco.

L’alca impenne – illustrazione di Marta Bianchi

“Secondo me è stato l’uccello. Guardalo, con quegli occhi diabolici” “Vuole farci affondare, si vede, sta contando” “Dobbiamo liberarcene, altrimenti la tempesta non finirà mai. È sicuramente una strega”

La piccola barca ondeggia nuovamente, quasi si capovolge. I tre pescatori si avventano sulla povera alca impenne che tengono imprigionata da tre giorni, legata e terrorizzata. Stremati dalla tempesta che vessa incessantemente l’oceano da tempo ormai immemore, si sono convinti che l’uccello sia in realtà una strega, che arrabbiata per la sua recente cattura sta cercando di eliminarli con furia meteorologica. Arraffano attrezzi, bastoni, rinforzano gli stivali, serrano le dita a pugno e in poco tempo la strega giace inerme. Il temporale però non si placa, e l’oceano Atlantico piange insieme al vicino arcipelago di St. Kilda la morte dell’ultima alca impenne delle isole britanniche. È l’estate del 1840, pochi anni prima che the great auk sia per sempre dichiarata estinta dal nostro pianeta. L’alca impenne è, o più precisamente era, un uccello dalla postura simile a quella di un piccolo pinguino smilzo, alto circa 80 centimetri. Similmente se ne stava eretto sulle alte falesie oceaniche ritto sulle sue massicce zampe palmate, con il piumaggio marrone scuro sul dorso e sulle piccole ali e candido sul ventre, con una macchia bianca sopra l’occhio che in inverno diveniva spessa e lunga scendendo fino al mento altrimenti scuro. Si racconta che furono proprio le alche, dal nome scientifico Pinguinus impennis, a ispirare il battesimo dei pinguini veri e propri quando vennero avvistati per la prima volta in Antartide. Sebbene non imparentate, entrambe le specie si accomunavano sia per alcuni tratti morfologici che per la loro incapacità di volare. Le loro minute ali pinniformi infatti si dimostravano utilissimi attrezzi per il nuoto, ma incapaci utensili per alzarsi verso il cielo. Fu per questo, forse, che le alche furono preda facile dell’uomo, che le stanava durante la stagione della riproduzione e della cova, quando in coppie si ritiravano sulle scogliere rocciose più scoscese e appartate per dare alla luce un singolo uovo.

I primi furono i marinai, che ne bruciavano i corpi ricchi d’olio per produrre carburante o ne mangiavano le carni durante le lunghe traversate dell’Atlantico. Successivamente ci furono i commercianti, che ne volevano il piumino soffice per riempire i cuscini. Gli ultimi furono i collezionisti e i musei di tutto il mondo, che inflissero loro il colpo di grazia. Già nel ‘500 le loro popolazioni erano ridotte a poche colonie e l’alca fu dichiarata una specie a rischio e soggetta a tutele sia in Canada che nel Regno Unito. Tra il ‘500 e il ‘700 i numeri diminuirono sempre di più e le leggi si inasprirono, ma purtroppo più il volatile diveniva raro più il suo prezzo saliva e si sa, non ci sono isole o scogliere abbastanza remote in grado di nascondersi al collezionismo spietato. L’ultima coppia venne uccisa sull’isola islandese di Eldey, accessibile solo da un unico lato, il 3 giugno del 1844. L’ultimo uovo fu accidentalmente pestato da uno dei bracconieri durante la cattura. Fu così che entro il 1852 l’animale venne dichiarato ufficialmente estinto, lasciando in eredità immensi scogli vuoti e 78 esemplari impagliati, uno dei quali, il numero 9, si trova al museo di storia naturale di Glasgow. In una piccola teca di vetro, di fianco al suo uovo ricostruito, l’uccello dal robusto becco sembra ammonire i visitatori, impartendo una triste lezione d’etica da non dimenticare.

Pulcinella di mare (Fratercula corniculata)

Pulcinella di mare – Illustrazione di Marta Bianchi

C’è una minuscola isoletta tondeggiante chiamata bass rock al largo della piccola cittadina di North Berwick, nella Scozia sudorientale. Da lontano appare di un candore innaturale, se contrapposta allo scuro basalto della costa circostante. Ad un’analisi più attenta, tuttavia, ci si rende conto che quelle pennellate bianche che dipingono la roccia altro non sono che il guano delle centinaia di uccelli che ogni anno vi nidificano sopra. Tra questi, le più famose sono senza dubbio le pulcinelle di mare, talmente abbondanti da aver cambiato i connotati cromatici della roccia. La pulcinella di mare, o Puffin come viene chiamata in Scozia, è un uccello marino dall’aspetto piuttosto paffuto. Il suo piumaggio è bianco sul ventre e nero sul dorso, in armonia con molti altri uccelli marini, quasi discreto a prima vista. Il suo becco rotondo e le grandi zampe palmate saltano però subito all’occhio, dipinte di diversi toni entusiastici di arancione, giallo, rosso e grigio, dalla forma che sembra essere stata disegnata da un bambino con molta fantasia e incredibile talento per i dettagli. Gli occhi truccati, come quelli di una diva del cinema muto, sono posti proprio al centro di due grandi macchie bianche ai lati della testa. Due cerchi perfetti che si aggiungono alla serie di contrasti cromatici alternati lungo tutti il corpo della pulcinella di mare, come quando si disegnano prima i bordi e poi si colora dentro.

Si aggregano sulle coste in colonie molto numerose e rumorose, in una confusione d’ordine in cui le stesse coppie di individui si ritrovano ogni anno per la riproduzione e la cova. All’imbrunire di agosto, finita la stagione dell’accoppiamento, essere notati non è più così importante e il becco delle pulcinelle si fa grigio, così come il muso, che diventa più scuro, insieme alle giornate. Alla fine dell’estate i paffuti pennuti veleggiano verso l’oceano Atlantico, dove passeranno tutto l’inverno, fino alla prossima stagione di accoppiamento. Torneranno a occupare numerosi le coste scoscese della Scozia e delle sue isole alla fine di marzo, inghingherati nella nuova livrea colorata.

Shetland pony – Illustrazione di Marta Bianchi

Le isole Shetland sono un piccolo e remoto arcipelago circa 190 km a nord-est della Scozia, in mezzo al Mare del Nord, quasi a metà strada con la Norvegia. Nonostante la posizione, gli inverni su queste isolette sono relativamente miti, per effetto della Corrente del Golfo: difficilmente le temperature scendono sotto lo zero. Da sempre però sono attraversate da gelidi venti polari che soffiano incessanti sulle loro rocce scoscese e appuntite e col tempo hanno contribuito a plasmare la morfologia delle Shetland, famose anche per le loro imponenti scogliere torreggianti. Non solo le rocce tuttavia hanno subito questa influenza eolica e un animale iconico si vede spesso mentre bruca indisturbato l’erba verdissima delle brughiere isolane. Gli Shetland Pony sono dei piccoli equini dalla corporatura piccola ma robusta, le orecchie corte e in generale un stazza più bassa rispetto ai comuni pony, quasi il vento avesse levigato anche loro. Sono alti al massimo un metro e sette centimetri e hanno il pelo lungo, che copre anche i loro zoccoli tozzi. La soffice peluria culmina in una folta criniera e una coda notevole, riuscendo a conferire eleganza a un animale altrimenti abbastanza sproporzionato. Nonostante sembrino la miniatura di un cavallo, queste adorabili bestiole, che oggi vengono utilizzate prevalentemente come animali domestici e da soma, un tempo erano fondamentali nelle miniere di carbone.

Molto intelligenti, abituati a resistere a condizioni meteorologiche difficili, ma soprattutto dalle dimensioni ridotte e dalla potenza incredibile, gli Shetland pony erano ideali per essere introdotti negli stretti cunicoli minerari e utilizzati come forza lavoro sotterranea. Facevano parte della categoria dei cosiddetti pit pony, ovvero sfortunati equini selezionati per trascorrere una vita breve e infelice a lavorare nel sottosuolo. Fortunatamente si festeggia ormai il ventiseiesimo anniversario da quando l’ultimo animale è stato estratto da una miniera di carbone nel Regno Unito, e gli Shetland pony possono essere ammirati mentre scorrazzano alla luce del sole, la criniera mossa dal vento, liberi di esprimere il loro proverbiale carattere burbero e cocciuto.

Vacca Highlander – Illustrazione di Marta Bianchi

Il faccione rotondo e peloso di queste mucche si vede dappertutto nei negozi di souvenir, ti guarda da magliette, tazze, bicchieri e persino bavaglini. Il viso paffuto è incorniciato da due lunghe corna perfettamente simmetriche che si incurvano verso il cielo, una frangia rossiccia lascia libero solo il nasone e un occhio nero, che ti scruta per niente intimorito. In effetti l’aspetto delle mucche delle Highlands è piuttosto scozzese, o se non altro come ci si immagina il suo stereotipo. Dal capello lungo e rosso e lo sguardo serio, sono delle mucche leggermente più piccole di quelle cui siamo abituati sulle Alpi, sembrano seguire la proporzione dei loro habitat. Le montagne dell’altopiano delle Highlands infatti, che raggiungono al massimo i 1345 metri, somigliano a una miniatura, se paragonate alle altitudini delle vette alpine. I maschi sono i più grossi e raggiungono al massimo un metro e venti di altezza, ma generalmente si mantengono intorno al metro e si distinguono anche per le corna, che puntano in avanti, mentre quelle delle loro controparti femminili guardano in alto. Da lontano si vedono pascolare placide e silenziose, soffici, grazie al loro doppio strato di pelo che le protegge dai rigidi inverni scozzesi. È proprio questa specie di lana e non il grasso, a mantenerle al caldo, a qualsiasi temperatura. Di solito è rossiccia, ma può anche avere diverse sfumature di marrone, grigio o nero. Sebbene queste mucche vengano ormai allevate in quasi tutto il mondo, sono comunque un simbolo della cultura scozzese.

Non è difficile incontrarle nelle aree rurali della Scozia, magari quando ci si ferma per un caffè sulla strada, scoprendo sul retro del locale un recinto con qualche placido bovino. Anche molti dei tour delle Highlands prevedono una tappa vicino a qualche pascolo per osservarli da vicino. I pullman scelgono piazzole dal panorama mozzafiato dove far scendere piccoli gruppi ordinati di turisti. Sullo sfondo un paesaggio ondeggiante, dove l’eternità della montagna si manifesta in una silenziosa esplosione di colori e prati. Alcuni si avvicinano a salutarle, qualcuno allunga un filo d’erba, qualcun altro soltanto una mano per cercare di accarezzarle. In genere, la maggioranza rimane in contemplazione. I bovini rispondono pazienti, scuotono il pelo con uno sbuffo, imperturbabili rappresentanti di un ambiente magico, che così concede un pezzo di sé alle anime più sensibili.

Gatto selvatico scozzese (Felis silvestris silvestris)

Gatto selvatico – Illustrazione di Marta Bianchi

Quando ero piccola avevo ricevuto per il compleanno il solito calendario con i gatti e marzo millenovecentonovantotto era un cucciolo grigio con gli occhi arancioni come due biglie perfette e le orecchie molli ripiegate ai lati. Mi guardava in modo talmente tenero che mi era impossibile non ricambiare e così mi ritrovavo per ore a fissare il musetto grazioso dello scottish fold. Era sicuramente il mio preferito fra i vari certosini, siamesi, persiani e domestici vari. La sorpresa però arrivò a giugno, che portò con il sole anche il gatto selvatico europeo. Un grosso micio dal pelo lungo e striato, marrone in generale, ma con la punta della coda nera e qualche striscia più scura che sbucava qua là lungo la schiena e le agili zampe. Di dimensioni molto più grandi rispetto ai gatti degli altri mesi, il gatto selvatico se ne stava appollaiato su un albero nella tipica posa felina, elegantissima, la coda paffuta a penzoloni dal ramo. Non guardava verso di me, era evidente, osservava qualcosa alle mie spalle in assoluta concentrazione e non importa per quanto tempo rimanessi a fissare quegli occhi giallissimi dalle pupille sottili, lui non ricambiava mai il mio sguardo. Fu un piacere dunque scoprire che la Scozia non è solo la patria dello scottish fold, bensì possiede anche una popolazione ben radicata di gatti selvatici europei, che arrivò nelle isole britanniche durante l’Olocene, circa 9000 anni fa. All’epoca infatti esisteva un passaggio chiamato Doggerland che collegava il sud dell’Inghilterra a Germania e Danimarca che permise a un gruppo di intraprendenti gatti selvatici di migrare in Gran Bretagna, stanziandosi nei suoi boschi. Successivamente l’Inghilterra si staccò del tutto e la popolazione isolana di gatti rimase al sicuro nelle foreste, almeno fino ai tempi più recenti, in cui lo sviluppo umano ha sacrificato boschi, cespugli e siepi per la costruzione di città e campi coltivati, riducendo quasi completamente l’areale di distribuzione del gatto selvatico.

Oggi sopravvive solamente in Scozia, nel parco naturale dei Cairngorms nelle Highlands, dov’è protetto come specie a rischio di estinzione. Altri fattori hanno contribuito all’indebolimento della popolazione come ad esempio la caccia da parte dell’uomo o l’ibridazione con i gatti domestici, che spesso sono anche portatori di malattie letali. Alcune associazioni per la tutela degli animali selvatici stanno cercando di isolare gli individui di razza più pura per farli riprodurre in cattività e rilasciarli, cercando in questo modo di ripopolare i boschi e le foreste, così che un giorno potremmo più facilmente scorgerne qualcuno appollaiato su un ramo. Le zampe conserte e la coda rilassata, gli occhi ben aperti a guardare un punto oltre le nostre spalle quasi incantati, ma con le orecchie appuntite sempre sull’attenti.

Cat Sith – Illustrazione di Marta Bianchi

Quando un gatto selvatico scozzese si riproduce con uno domestico può succedere che nasca un Kellas cat: un gatto nero come il carbone, lungo fino a un metro e alto quasi quaranta centimetri. Si chiama così perché per molti anni si è pensato la sua esistenza fosse solo una leggenda, fino a che un cacciatore ne catturò uno per sbaglio, proprio nel piccolo villaggio di Kellas, lungo la costa est della Scozia. Alcuni esemplari impagliati sono oggi esposti nei musei di storia naturale e tipicamente sono montati in una posa aggressiva, con le orecchie abbassate e gli occhi a fessura, a rispecchiare la tradizione che li dipinge cattivi come i gatti di strega. Dai Kellas cat tuttavia si è sviluppata un’altra leggenda, che trova le sue origini nella mitologia celtica più antica e secondo la quale esistono alcuni gatti neri grossi come dei cani che si distinguono per una macchia bianco latte sul petto, proprio sotto al collo: i Cat Sith. Molto difficili da incontrare, si dice che errino nelle Highlands come spettri, ben attenti a salvaguardare le proprie abitudini selvatiche e solitarie. È bene non provare ad accarezzarli qualora ci si dovesse imbattere in uno della loro razza, in quanto non sono affatto docili. Se disturbati infatti mostrano subito i denti bianchi, prodigandosi in un soffio gutturale più acuto del vento in una notte di tempesta. Come una saetta estraggono gli artigli e senza fare in tempo ad accorgersene ci si ritrova con la loro firma incisa sul dorso della mano sanguinante. Queste creature vengono attirate dagli spiriti dei morti e riescono a impadronirsene giusto prima che possano raggiungere le divinità celesti, escludendole così dalla pace eterna. Basta che il massiccio felino cammini sul corpo dei deceduti prima della sepoltura per rubare le loro anime.

Anticamente durante i funerali venivano utilizzati diversivi fra i più disparati nel tentativo di distrarre i temuti gattacci come ad esempio lo spargimento massivo di erba gatta o persino la musica. Un’ulteriore precauzione era quella di allestire dei fuochi in molte stanze della casa, tranne che in quella del morto poiché il Cat sith, confacendosi alla sua identità gatta, veniva attirato dal calore delle fiamme ardenti. Si diceva pure che dietro al quadrupede dal passo felpato si nascondesse in realtà una strega in grado di trasformarsi in un gatto, ma per nove volte soltanto. Alla nona trasformazione la donna non avrebbe più potuto ritornare alla sua forma umana e sarebbe stata condannata a restare per sempre nella sua metamorfosi animale. Le popolazioni delle Highlands non si sono mai fidate del Cat sith, che fosse per le sue movenze da strega o per la sua ossessione per le anime, gli occhi furbi di quel felino non sono mai stati convincenti.

Crociere scozzese – Illustrazione di Marta Bianchi

Il crociere scozzese è un uccellino del colore dei mattoni, proprio quelli rossicci che ci si immagina quando si pensa alle vecchie fabbriche inglesi nelle cartoline della rivoluzione industriale. Più precisamente è il maschio ad avere una livrea rossiccia, mentre la femmina ha una colorazione che vira maggiormente verso il giallo/verde. Gli adulti raggiungono una taglia media di 16-17 centimetri e vengono descritti dagli ornitologi come uccelli dalla corporatura massiccia, che pare una via di mezzo fra il crociere comune e il pappagallo. Il capo dei crocieri scozzesi, o scottish crosbill in inglese, è relativamente grosso e possiede uno scuro becco molto robusto che si incrocia alle estremità, un po’ come una forbice storta. Grazie a questa forma riescono a infilarlo fra le scaglie delle pigne e a sollevarle molto più efficacemente che con un normale becco appuntito, in modo da raggiungere gli agognati pinoli di cui si nutrono. È proprio questo carattere peculiare che dà il nome al genere cui appartiene: Loxia, che in greco significa proprio “storto” o “obliquo”. 

Il crociere scozzese non è semplice da distinguere rispetto a quello comune, tuttavia un orecchio allenato può differenziare i due uccelli dal loro canto e gli esperti ammettono scherzosamente di riconoscere un tipico ‘Scottish accent’ in quello scozzese. Uno dei luoghi dove questo animale tende a essere più comune sono le foreste a pino silvestre, diffuse nelle Highlands. Questi ambienti boschivi unici al mondo un tempo occupavano estese aree della Scozia e oggi non ne rimangono che alcuni frammenti, uno dei quali è protetto all’interno del parco nazionale dei Cairngorms, dove è più probabile trovare anche il crociere scozzese. Seppur abbondanti tuttavia non sono semplici da individuare, poiché frequentano le cime degli alberi, dove nidificano. Le coppie sono monogame e ogni anno producono due covate, durante le quali la femmina si apposta tranquilla dentro il nido mentre il compagno frenetico la rimbocca con qualche saporito pinolo che è riuscito a reperire tra le pigne dei pini circostanti. Qualche esemplare a testa in giù ricorda la postura dei pappagalli, tutto concentrato ad aprire le scaglie delle pigne col becco, il suo color mattone equilibrato contrasta con i verdi aghi dei pini. Una comunità impegnatissima, dunque, che bisogna far attenzione a non disturbare. Bisogna star ben zitti per poterne studiare l’andatura o il volo, ma soprattutto serve aver pazienza e rimanere con le orecchie ben tese, pronti con la macchina fotografica dal lunghissimo teleobiettivo e il microfono, appostati fra i cespugli e gli arbusti in silenziosissima concentrazione per poter assistere allo spettacolo che l’avifauna indisturbata offre agli osservatori più discreti. 

Cervo rosso – Illustrazione di Marta Bianchi

The Monarch of the Glen è un dipinto ad olio che ritrae in primo piano un maschio adulto di cervo rosso che si staglia austero verso il cielo, sullo sfondo le cime delle Highlands accompagnano l’altisonanza della composizione. Fu dipinto dall’inglese Sir Edwin Landseer nel 1851 e originariamente commissionato per essere appeso all’interno del palazzo di Westminster in una serie di tre quadri raffiguranti scene di caccia o selvaggina. L’artista aveva effettuato diverse gite nelle Highlands scozzesi e condotto diversi studi sulla fauna selvatica di quei magici luoghi, in particolare proprio sul cervo rosso. Pertanto non poté che sceglierlo come protagonista indiscusso del suo trittico artistico. Al centro del quadro posa indifferente, le sue corna ramificate ben alte verso il blu, il pelo rossiccio più folto sotto il collo sembra una specie di colletto imbottito contro i freddi venti delle Highlands. Le esili zampe grigie, appena visibili fra i ciuffi di erba alta, ne lasciano immaginare l’agilità mentre pacifico corre fra le montagne e i boschi. Impavido l’animale sembra non curarsi delle avversità metereologiche, ma sporgersi un po’ in avanti per godersi le meraviglie del panorama, con gli occhi lucidi, proprio come un fiero abitante di quei luoghi si fermerebbe a crogiolarsi nella bellezza della sua casa. Ancora oggi il quadro è considerato uno dei più famosi nell’arte inglese del diciannovesimo secolo ed è custodito a Edimburgo, dove è divenuto uno dei simboli delle bellezze selvagge della natura scozzese, fra le più caratteristiche al mondo.

I cervi rossi allo stesso modo rappresentano una forte attrattiva per gli amanti della natura poiché sono relativamente facili da incontrare nelle Highlands, se si è abbastanza pazienti. Durante la stagione dell’accoppiamento si possono udire i bramiti emessi dai maschi per attirare le femmine, o si può assistere, con non poca fortuna, alle ancor più suggestive lotte per la conquista del gentil sesso, in cui due maschi prendono la rincorsa e si scornano a vicenda in una sorta di braccio di ferro amoroso. L’immagine del nobile cervo rosso e in particolare il suo ritratto nel Monarch of the Glen è stata ampiamente utilizzata per fini commerciali e ora posa come icona su scatole di biscotti, bottiglie di whisky, burro ma anche zuppe, compagnie private e via discorrendo. È stata a tal punto inflazionata che ora quasi cade sullo sfondo, un po’ come il paesaggio che rappresenta, talvolta dato per scontato, dimenticato, ma che ci stupisce ogni volta come se fosse la prima.

Kelpies – Illustrazione di Marta Bianchi

Si racconta in Scozia che talune volte, durante le escursioni vicino ai laghi o ai fiumi più solitari, accada di scorgere un maestoso e solitario cavallo, o un pony, dal manto grigio scuro oppure bianco candido. Un animale che posa immobile in una postura quasi innaturale che sembra fatta apposta per farsi ammirare. La sua folta criniera di una bellezza abbagliante, bagnata fradicia, risplende alla luce de sole come appena uscita dall’acqua. Dai crini scendono ritmicamente piccole gocce, che cadono vicino agli zoccoli con un sonoro tip tap. Si dice che i bambini siano i più sensibili al suo fascino e che quasi cadano ipnotizzati in preda al desiderio di volerli toccare, accarezzare ma più di tutto pare che bramino dalla voglia di salirvi sopra e cavalcarli. Ciò accade poiché essi non sono comuni esseri, ma Kelpies ,ovvero creature mitologiche capaci di vivere sia in acqua che sulla terra, dove assumono anche questa elegante forma equina. Sono molto docili e prestano volentieri il dorso per farsi cavalcare, oppure abbassano subito il capo per farsi accarezzare e concedersi una grattatina dietro le orecchie. Non appena si tende la mano ecco che il Kelpie si avvicina, il suo sguardo si intenerisce e il suo manto si scuote leggermente quasi in un tremito eccitato.

A primo acchito il pelo sembra così morbido e caldo, quasi appiccicoso e d’improvviso la mano non si muove più, è incollata, se si era saliti a cavalcioni le natiche sembrano essersi fuse al dorso dell’animale. Con un nitrito gioviale il cavallo corre verso l’acqua e il malcapitato cavaliere con lui, nonostante tutti gli sforzi compiuti per liberarsi. Dopo un agile balzo la coppia si tuffa in acqua e sparisce fra i flutti. L’ultima a scomparire è la coda, che si immerge con il fragore di un tuono, udibile a migliaia di metri di distanza. Nessuno conosce l’aspetto dei Kelpies quando sono sommersi e nessuno è mai riemerso dalle acque per raccontarlo. Si dice tuttavia che sia possibile domarne uno se si è abbastanza svelti da riuscire a imbrigliarlo. Una volta impugnate le redini l’animale sarà soggiogato, ubbidirà a qualsiasi ordine e mostrerà una forza superiore a quella di dieci cavalli messi insieme. Il clan dei MacGregor sembra essere, secondo la leggenda, uno degli unici in grado di aver domato un Kelpie e di aver tramandato il segreto di generazione in generazione. Meglio non provarci però e lasciare che il loro fascino si consumi a distanza, sulla riva indisturbata del fiume. 

Megattera – Illustrazione di Marta Bianchi

Era un comune giorno di dicembre del 1883, freddo come ce lo si aspetterebbe nella cittadina di Dundee, in Scozia, vicino a dove il fiume Tay si getta nell’omonimo fiordo e si apre nel Mare del Nord. Per uno strano caso un banco di aringhe e piccoli pesci si trovava a nuotare indisturbato nelle fredde acque del Firth of Tay, quand’ecco che un gigantesco maschio adulto di megattera si accorse del prelibato banchetto e decise di abbandonare momentaneamente la sua dieta a base di krill per un pasto più corpulento. La Balena di Tay, o il Mostro come venne poi soprannominato, fu così visibile alla popolazione di Dundee, che accorse numerosa al porto per veder quel maestoso cetaceo nuotare elegantemente fra le onde. Incredibilmente leggero eseguiva la sua pachidermica danza, noncurante dei suoi spettatori, ma soprattutto delle sue decine di tonnellate e i più di 12 metri di lunghezza. Purtroppo però Dundee in quegli anni era la punta di diamante dell’industria baleniera del Regno Unito e i cacciatori, tutti a casa per le festività natalizie, decisero di non farsi sfuggire l’occasione di catturare la megattera in casa. Dopo qualche giorno di continui avvistamenti la flotta partì al suo inseguimento e il 31 dicembre la povera creatura venne finalmente arpionata con successo. Tuttavia reticente alla resa il Mostro si guadagnò il suo epiteto e si dette alla fuga, trascinando con sé la nave ancora attaccata all’arpione. Dopo una lotta durata tutta la notte e poche decine di miglia la povera balena riuscì a spezzare il doloroso guinzaglio che la imprigionava e a conquistarsi la libertà. Purtroppo però era ferita ed esausta e non fece molta strada prima di venir ritrovata spiaggiata appena otto giorni dopo sulla battigia di Stonehaven.

Il suo enorme corpo nero era abbandonato sulla sabbia, le pinne pettorali allungate sui fianchi e la dorsale, così piccola e sproporzionata rispetto al resto era ora ripiegata su se stessa. L’ampia coda che un tempo si vedeva sparire all’orizzonte riposava sul bagnasciuga, per metà ricoperta di sabbia. La bocca semichiusa faceva intravedere centinaia di fanoni fittamente addossati l’uno sull’altro e le pieghe della pelle, quelle ventrali che si tendono quando l’animale si riempie d’acqua, ora giacevano flaccide e tristi, svuotate di significato, così come un animale tanto maestoso in vita ora pareva un ammasso molliccio e sgraziato. Ci fu una gran gara per accaparrarsi la famosa carcassa e alla fine l’imprenditore John Woods ebbe la meglio e la comprò per portarla nel suo giardino di Dundee, così che la gente potesse osservarla a pagamento. Dopo qualche tempo però il corpo fu completamente putrefatto e incapace di fruttare altri quattrini e fu così ceduto alla scienza. Venne studiato e dissezionato e molti disegni di anatomia furono prodotti a partire dal Mostro. Oggi se ne possono osservare le ossa alla Galleria MacManus di Dundee, a memoria della tragica vicenda. 

Ci vollero più di cento anni fino a che la caccia alle balene venisse vietata (nel 1986), quando ormai la popolazione artica di megattere era stata ridotta del 90% e quasi sull’orlo dell’estinzione. Dopo molto tempo però finalmente sono tornate a farsi vedere anche a largo della Scozia, specialmente lungo le coste più a nord, dove è possibile partecipare ad attività di whale watching. Oggi le si osserva solo da lontano, nel loro ambiente naturale, mentre libere volteggiano in aria o con un poderoso colpo di coda spariscono nelle profondità oceaniche e di loro resta sulla superficie un mare increspato. Se si presta attenzione si ode un canto lontano, una lenta musica che risuona di un’armonia ritrovata, libera fra le onde del mare. 

Selkie – Illustrazione di Marta Bianchi

Ci sono nella Scozia del Nord e a largo delle isole Orcadi, Shetland e Faroe delle foche piuttosto longilinee per la loro categoria. Certo non si deve dimenticare che vivono in acque molto fredde, dunque necessitano di grasso per poter mantenere la loro temperatura interna, rendendo il concetto di longilineo piuttosto relativo. Questi esemplari molto rari, le Selkie, amano le nuotate al largo e le abbuffate di pesce, ma quando raggiungono la riva pare che d’incanto possano spogliarsi della loro pelle adiposa. Come dei primordiali esploratori subacquei si trascinano sul bagnasciuga e agili si rizzano in piedi, il manto scende veloce dalle loro spalle rivelando un asciutto corpo di donna. Avulse dal contesto meteorologico queste meravigliose fanciulle così trasformate non tremano, non sudano, statuarie si lasciano il mare alle spalle, raccolgono da terra la pellaccia svuotata e se la appoggiano sull’avambraccio come un cappotto.

I lunghi capelli ondeggiano con lo stesso ritmo delle onde e attente scrutano la spiaggia, mentre in silenzio si godono il loro nuovo aspetto. Con queste nuove sembianze si dice possano condurre una normalissima vita umana, interagire con gli uomini e addirittura sposarsi e avere dei figli. Finché conservano la loro pelle di foca sono in grado di ritornare al loro aspetto animale ogni volta che vogliono e per questo si assicurano per bene di non perderla mai. Qualora mettano su famiglia, pertanto, i mariti devono stare bene attenti a dove la nascondono e fare in modo che le loro mogli Selkie non possano ritrovarla e sparire fra le onde del mare. Molte sono le leggende di mariti che si sono risvegliati ritrovando la porta dell’armadio socchiusa, una scatola vuota e il materasso freddo. Abbandonati da colei che pensavano di amare e invece avevano solamente imprigionato in una forma. La loro moglie ha riconquistato il suo manto grigio e ora nuota felice, di nuovo libera di trasformarsi a piacimento e scegliere di quale regno fare parte, così come la corrente si muove verso il largo o verso la costa. 

Tasso – Illustrazione di Marta Bianchi

Kenneth Graham fu uno scrittore di origini scozzesi che nel 1908 scrisse il romanzo di fantasia Il vento nei salici, in cui uno dei personaggi principali è il signor tasso. Nella storia il tasso viene descritto come uno scorbutico un po’ attempato, che porta una vestaglia comoda e consumate ciabatte di feltro mentre si muove nella sua tana sotterranea fitta di cunicoli e grosse porte di quercia a dividere le ordinate stanze. Nella sua cucina arde un camino sempre acceso e la dispensa è piena di provviste che il buon tasso condivide con qualche creatura del bosco che si è perduta e cercava un pasto caldo. In fondo si capisce che il burbero ha in realtà un buon cuore e semplicemente ama starsene tranquillo nelle comodità della sua tranquilla tana. Questa immagine non è troppo distante dalla realtà e il tasso, della famiglia dei Mustelidi di cui fanno parte ad esempio anche lontre, puzzole e furetti, è considerato un animale piuttosto pacifico e tranquillo, se non disturbato. Vive in elaborate tane sotterranee che si costruisce da solo o insieme ad altri tassi e talune volte ricchissime di cunicoli dall’estensione notevole.

Le sue zampette digitate terminano con delle unghie molto affilate e resistenti, che gli servono per scavare ma anche per ricordare a chiunque che è meglio non dargli fastidio. Grazie al suo corpo flessibile eppure incredibilmente robusto questo mammifero riesce a muoversi agilmente anche negli anfratti più stretti, dove passa le giornate tipicamente in solitudine o in gruppi molto piccoli, che abbandona la notte in cerca di cibo e per sgranchirsi le zampe. Il suo pelo è grigio scuro sul dorso e nero sul ventre, possiede una coda corta e ha un aspetto piuttosto ispido, ma ciò che più lo contraddistingue è il musetto a strisce bianche e nere, ospite di un paio di occhi vitrei e una tenerissima espressione quasi assonnata. Il naso scuro al centro verso cui convergono due strisce nere iniziate appena sotto le orecchie rotonde è la ciliegina sulla torta per l’aspetto di questo animale, che sembra essere stato costruito su misura per intenerire anche il più roccioso degli animi. Eppure nel Regno Unito questa specie è ora protetta poiché rischiava l’estinzione. Il tasso veniva cacciato per la sua pelliccia che veniva utilizzata per le spazzole dei barbieri o per la sporran, ovvero la tipica saccoccia che accompagna i kilt scozzesi.

Un’altra brutale pratica resa illegale verso la fine dell’800 prevedeva lo stanamento degli esemplari dalle loro tane e la messa in scena di terribili combattimenti con dei cani, che terminavano con il brutale massacro del tasso e le tasche rigonfie di qualche scommettitore barbaro. Ad oggi fortunatamente le restrizioni e gli sforzi compiuti per la tutela del tasso hanno contribuito al ripristino della sua comunità e in Scozia vive placido e sereno. È più facile scovarlo nella zona centrale e del sud, dove vive solitario e se disturbato al massimo emette un piccolo rantolo e si ritira nella tranquillità della sua casa. 

Il mostro di Loch Ness (Nessie)

Nessie – Illustrazione di Marta Bianchi

È il 22 luglio 1933 e i coniugi Spicer stanno percorrendo a bordo della loro auto la strada che costeggia il solitario lago di Loch Ness. All’inizio dell’anno la careggiata è stata modernizzata e ampliata e questo ha portato un notevole aumento del traffico, in precedenza quasi assente. Si stanno godendo una fresca giornata estiva senza pioggia quand’ecco apparire qualcosa in lontananza. Pian piano la sagoma prende forma e diviene un‘aberrazione faunistica enorme e spaventosa che inizia a correre verso la riva con l’andatura di una foca goffa. I freni stridono mentre la macchina riesce a rallentare appena in tempo per non investire la strana creatura dal corpo tozzo. Ora scomparsa, la sua immagine è rimasta ben impressa nelle menti degli Spicer. Non aveva zampe, ma quattro pinne che ha usato per scomparire fra le acque scure, lasciando entrare la coda sottile per ultima, la sua pancia simile a quella di una balena si contrapponeva a un collo estremamente longilineo e un capo piuttosto minuto.

Da quella sera la voce si sparge e ben presto altri testimoni iniziano a giurare di aver visto un essere enorme sbucare fra le onde di tanto in tanto, gli avvistamenti vengono ricollegati alla leggenda locale che tramanda un mostro che da secoli frequenta le acque del lago. Viene così battezzato il mostro di Loch Ness e i titoli sul giornale locale Iverness courier si susseguono fino a culminare, l’anno successivo, nella famosissima ‘foto del chirurgo’, attribuita al dottor Robert Kenneth Wilson. Questa istantanea mostra il lungo collo arcuato di un essere emergere dalle increspature della superficie. Si nota anche una parte del suo dorso abbastanza sfuocato e viene considerata come l’ennesima prova che il lago ospita un pachidermico abitante. Con il tempo varie teorie si sono susseguite e secondo la più popolare sembrerebbe che Nessie, così ribattezzato dopo che in molti sono accorsi per trovarlo, sia in realtà un dinosauro del tipo dei plesiosauri scampato all’estinzione grazie al suo rifugio in Scozia. 

Ci sono voluti quasi 60 anni prima che la foto del chirurgo venisse smascherata e si scoprisse che in realtà il feroce mostro della foto è un pupazzo attaccato a un sommergibile giocattolo. Il cacciatore Marmaduke Wetherell aveva infatti appositamente costruito il falso in un tentativo di riqualificare la sua immagine pubblica dopo la sua imbarazzante figura del 1933, quando convinto di aver trovato le tracce del mostro, aveva mandato ad analizzare delle impronte di ippopotamo ricreate con un trofeo di caccia. Molte altre finte prove e fotografie sono state poi riprodotte nel corso della storia e innumerevoli studi scientifici lo hanno più volte smentito, eppure il mito del mostro di Loch Ness ad oggi attira quasi un milione di turisti all’anno. Albergatori e compagnie di trasporti mantengono ben viva la leggenda, organizzando crociere e raccontando storie incredibili ai visitatori. Benché sia oramai pressoché assodato che Nessie sia una fantasia popolare tutti, quando osservano le calme acque del lago, sperano in cuor loro di notare d’improvviso un’onda, un’increspatura anomala, che possa mantenere viva la fiaba e continuare a far crescere la fantasia di uomini e donne di ogni età. 

Foca comune – Illustrazione di Marta Bianchi

Lo scorso luglio ero a bordo di una grossa nave ormeggiata al porto di Aberdeen, nel nord della Scozia. È il più grande del paese, molto affollato, attraversato da imbarcazioni giganti e immerso in una bolla di rumori che di naturale hanno ben poco. In questo antropico panorama stavo affacciata su uno dei ponti esterni più alti della nave, a godermi una rara giornata soleggiata scozzese. Fu lì che vidi nell’acqua, poco lontano, una coppia di mastodontiche foche comuni che, come me, guardavano il sole negli occhi e lo ringraziavano per il bel tepore estivo. Noncuranti del contesto, le due signore al bagno sguazzavano placidamente a pancia in su, rigirandosi di tanto in tanto per spostarsi un poco di lato o per mettersi semplicemente più comode. Se le avessi guardate dall’alto probabilmente mi avrebbero ricordato una vecchia scena holliwoodiana di nuoto sincronizzato in piscina o forse una coppia di corpulente signore, che placide si dedicavano alla loro toeletta nella vasca da bagno, canticchiando tra una bolla e l’altra. Talvolta si concedevano una nuotatina sott’acqua di qualche metro, dalla quale riemergeva una testolina marrone scuro assolutamente sproporzionata rispetto al resto del corpo.

A considerare solo la testa si può dire che l’aspetto ricorda quello di un cane, senza le orecchie e i baffi molto folti. In Scozia questa specie di foca, la foca comune, viene chiamata anche foca di porto poiché non è raro incontrare qualche individuo più temerario che si spinga all’interno dei canali portuali fino ai moli, vicino alle imbarcazioni. In genere le foche amano riposare su spiagge, estuari o scogliere e spingersi in mare prevalentemente per nutrirsi o per il corteggiamento e l’accoppiamento. Le coste scozzesi sono quasi tutte ideali per lo spiaggiamento di questi mammiferi, tuttavia è più facile incontrarle lungo la costa ovest e sulle isole Ebridi, Orkney o Shetland, lascivamente distese lungo le spiagge, quasi in posa per un immaginario pittore impressionista, che ne catturi gli sbadigli nascosto fra l’erba alta. 

Marta Bianchi è un’illustratrice freelance che vive e lavora a Roma. Ama mischiare registri stilistici e tecniche grafiche diverse. Per lei il disegno è lo strumento con cui trasmettere emozioni ed evocare mondi immaginari, mentre rappresentare la realtà le risulta alquanto noioso. Quando non disegna parte per fare lunghe passeggiate nei boschi. Portfolio Facebook Instagram